Negli ultimi 30 anni il capitale è riuscito a
riappropriarsi di tutto ciò che i lavoratori erano riusciti a ottenere mediante
le pratiche del conflitto e dell’organizzazione di classe, esso sta conducendo
con successo un’inaudita offensiva ai danni del proletariato precarizzato e
senza coscienza di classe: sta distruggendo il lavoro e i diritti, frammentando
le proteste e anestetizzando le forme del dissenso.
Tale opera
procede con lenta e solerte continuità: un pezzo alla volta, un diritto dietro
l’altro, conquista dopo conquista,
magari con qualche rallentamento, senza mai
comportare una reale inversione di tendenza, semplicemente destano l’illusione
dell’assenza di un vero obbiettivo quello con cui ci stanno defraudando di
tutto, facendo apparire come privilegi quelli che fino a ieri erano diritti. E
cosi, passo dopo passo, ci riportano indietro, non lasciandoci nulla.
Oltre che
nella gradualità l’astuzia della ragione capitalistica risiede nel far portare
a compimento questo processo alle forze post comuniste, passate dalla lotta
contro il capitale alla lotta per il capitale.
Se, infatti,
fossero le tradizionali forze di destra a operare in questa direzione, subito
diverrebbe evidente la vera natura del processo in atto: e potrebbe,
eventualmente, levarsi una reazione dal basso.
Il potere
quando vuole iniziare un’azione poco popolare crea preventivamente l’opinione
pubblica adeguata. Opera in modo che si dissenta contro ciò che aveva preventivamente
deciso di destrutturare, affinché il dissenso riconfermi l’ordine dominante e
le sue strategie, gestisce i flussi del consenso e del dissenso. Fa in modo
che, di volta, in volta si generi un comune dissenso verso la spesa pubblica,
verso i diritti del lavoro, verso il pubblico impiego, verso il diritto di
sciopero, alimentato ad arte dai media si trasforma in sdegno e rabbia in modo
che vi sia il pieno consenso allorché si tratta di privatizzare, licenziare,
rimuovere i diritti.
Con il suo ordine
simbolico garantito dal dominio dei mezzi di informazione, il potere oggi mira
a dissolvere il senso della possibilità, “nessun altro mondo è possibile” affinché
l’adesione al modello unico sia automatico, in quanto vissuto come naturale, né
criticabile, né trasformabile.
A differenza
delle formazioni totalitarie imposte con la forza, il segreto dell’odierna dittatura
di mercato sta nel non imporre con la violenza l’accettazione delle regole, bensì
nel far si che i cittadini le desiderino essi stessi, incapaci di percepirne il
carattere dominante e a rassegnarsi alla sola libertà possibile.
Ed in questo
modo, i bombardamenti in nome dell’umanitarismo e il taglio lineare dei diritti
in nome dell’efficientismo possano essere accettati supinamente e in modo
consensuale, semplicemente gestendo il dissenso verso i futuri bombardati e
verso i diritti, ad esempio presentando i primi come negatori dei diritti umani
e i secondi come superflui residui di un mondo passato.
Il pensiero
unico dominante decide sovranamente e, in seconda battuta, gestisce i flussi
del consenso e del dissenso, di modo che le scelte appaiano democratiche e
consensuali.
E il caso, ad esempio, delle cosiddette «rivoluzioni colorate» e delle
«primavere arabe», foraggiate a flusso continuo dai grandi poli della finanza
internazionale: le masse manipolate scendono in piazza e dissentono
pubblicamente, causando la destabilizzazione dei governi e favorendo l’ingresso
del Paese di turno nel regime del nuovo ordine mondiale sotto l’egida della
civiltà del dollaro. Per questa via, la rivolta abilmente amministrata rinsalda
e non destituisce l‘ordine dominante.
Ma è ancora
il caso dell‘episodio dell’attentato che ha sconvolto Parigi, con il quale il
potere è riuscito a ottenere il pieno consenso dell’opinione pubblica per la
propria reazione terroristica al terrorismo, centrata sui bombardamenti etici
della Siria, sulla limitazione delle libertà in nome della sicurezza e sulla
demonizzazione dell’islam come religione da loro definita terroristica.
Comunque lo
si voglia intendere e definire, il terrorismo che insanguina il mondo si rivela
oggi funzionale all'ordine egemonico e a una nuova strategia della tensione
globalizzata.
Il terrorismo,
da un lato, permette, attraverso i media, di produrre un immediato adattamento
alla condizione neoliberale, contraddittoria ma pur sempre preferibile rispetto
allo stato d’eccezione del terrore, e, dall'altro, produce un’automatica delegittimazione
di tutte le critiche radicali della società esistenti; subito accostate alle
pratiche terroristiche.
E forse
anche per questa ragione, del resto, che i primi finanziatori del terrorismo
(dall’al-Qaeda di Bin Laden all’Isis) risultano puntualmente le amministrazioni
dell’Occidente a stelle e strisce.
In nome
della sicurezza contro l’emergenza del nemico e del terrorista, i governi
restringono le libertà e inducono i cittadini ad accettare limitazioni e
invasioni nella loro Vita privata che, in altri contesti, mai sarebbero state
accettate.
Come
inconfutabilmente si evince dalla situazione prodottasi negli Usa dopo
l’attentato alle Torri Gemelle (New York, Il settembre 2001), la situazione di
crisi emergenziale, mettendo in discussione la sicurezza, diventa un metodo teso
a intensificare il controllo dei cittadini e a limitarne le libertà senza che
mai si costituisca un generale moto di dissenso.
Per legittimare
i bombardamenti etici e l’interventismo umanitario, allo stesso modo, il
capitalismo deve prima favorire, nell’opinione pubblica, un dissenso
generalizzato verso il Paese che si è stabilito di attaccare; dissenso che
viene ottenuto ora denunciando la presenza di inesistenti armi chimiche o di
distruzione di massa, come nel caso dell’Iraq, ora del capo dello Stato da
abbattere -Saddam, Milosevic, Gheddafi, Assad ecc., in modo da giustificare i
bombardamenti come male necessario.
In questo
modo, l’aggressione militare non genera dissenso e non è mai percepita per
quello che è, ossia per un ingiustificato gesto imperialistico, ma è anzi
salutata dalle opinioni pubbliche manipolate come un intervento benefico e
necessario.
Cosi, il
dissenso non è soltanto disinnescato. E, di più, dirottato nei circuiti del
pensiero unico e posto al servizio di quest’ultimo.
Il fatto che il nuovo ordine conceda, con
apparente generosità, libertà di ogni tipo, comprese quelle di contestazione,
non solo non lede la riproduzione del sistema sociale Paradossalmente, si
capovolge in un fattore di potenziamento della repressione flessibile, che non
viene più avvertita come tale ma, appunto, come una forma compiuta di libertà.
Per
comprendere cosa realmente sia il potere, è sufficiente domandarsi chi tragga
giovamento dalla divisione degli ultimi; tra rossi e neri, autoctoni e
stranieri, atei e credenti, islamici e cristiani; divisione finalizzata a fare
si che l’ira degli offesi, anziché organizzarsi e scagliarsi verso il potere
stesso, sfoci in lotte fra poveri.
Dividendo,
il potere comanda indisturbato, spesso senza nemmeno essere nominato: la
tradizionale lotta di classe tra proletari e padroni è sostituita da quella tra
proletari in conflitto tra loro.
Il potere
capitalista lascia che gli individui credano di fare liberamente ciò che il
sistema stesso decide, in tal modo il conflitto vero non può divampare: se un
tempo si credeva di non avere da perdere se non le proprie catene, oggi si
ritiene di avere tutto grazie ad esse, senza nemmeno più avvertirle come tali.
L’integralismo
economico ci vuole tutti calcolanti e non pensanti, operativi e non
dissenzienti. In una parola, desidera disporre di un esercito di cultori ignari
della propria schiavitù, non certo di potenziali ribelli.
Il pensiero
unico impone parole e concetti sottratti a ogni discussione critica.
«Populismo», ad esempio, diventa l’infamante accusa con cui il ceto
intellettuale e politico etichettano chiunque osi schierarsi contro il potere.
L’ordine
neoliberale difende, a corrente alternata, la libertà d’espressione,
fintantoché essa esprime liberamente e in forma plurale ciò che asseconda e non
contraddice il nuovo ordine mondiale (ridicolizzazione delle religioni e degli
Stati sovrani, denuncia di tutte le violenze della storia che non siano quelle
del fanatismo economico ecc.).
Non appena
ci si discosta dal percorso preordinato e dal recinto chiuso dal pensiero
unico, si è puniti con l’accusa di omofobia, di stalinismo o, di «apologia di terrorismo»,
categoria che diventa in misura sempre crescente l’arma per silenziare ogni
voce fuori dal coro.
La caccia al terrorismo si capovolge;
il
terrorismo non è mai quello dei bombardamenti etici e dell’interventismo
umanitario che aggredisce i popoli e gli Stati non ancora piegati al
mondialismo a guida statunitense; o ancora, quello dell’usurocrazia propria del
sistema bancario, che mediante la schiavitù del debito priva i cittadini della
casa e del diritto all‘esistenza, o dell’integralismo economico imposto dalla
Troika.
Come terrorismo viene indistintamente etichettata, in
maniera sempre più evidente, ogni forma di contestazione del sistema da loro
creato.
Il capitale,
che un tempo si arrestava ai cancelli delle fabbriche, oggi si è impadronito
della nuda vita, ha rimosso il confine tra ciò che è merce e ciò che non lo è,
tra nuda vita e valore di scambio.
Il potere
deve ininterrottamente rinsaldare e manovrare il consenso dei lavoratori,
inducendoli a dissentire sempre e solo verso potenziali liberatorie verso
eventuali contestazioni della loro cattività. Quali che siano le condizioni che
di volta in volta si presentano per rovesciare il potere, quest’ultimo le
impiega per impedire che ciò avvenga.
Per poterlo fare, oltre il condizionamento mediatico e politico, si
servono del collaborazionismo sindacale, che ha sposato in pieno questa
impostazione e perciò si adopera affinché i proletari si adeguino costantemente
alle esigenze delle aziende.
Le aziende chiedono più straordinari? Si facciano più
straordinari; le aziende chiedono di legare gli aumenti salariali alla
produttività? si leghino i salari alla produttività perché ovviamente la
competitività sul mercato è essenziale! Le aziende organizzano ritmi accelerati
di produzione? Si accettino i ritmi più accelerati, magari con il pretesto che
non si può non adottare nuove tecnologie. Le aziende chiedono la riduzione
dell’organico e l’introduzione di lavoratori precari nei picchi di lavoro? Si
accetta che un certo numero di operai siano considerati in esubero, e ovviamente
la «somministrazione di lavoro» a ditte appaltatrici e a lavoratori precari,
basta che sia «gestita» dai sindacati complici ...
Le misure di prevenzione e di sicurezza latitano? Devono essere
gli operi che denunciano la loro mancata applicazione...
Ogni intervento delle aziende sull’organizzazione del lavoro è
indirizzato allo scopo di rendere l’azienda più competitiva sul mercato, perciò
più redditizia e quindi capace di produrre più profitto capitalistico in
minor tempo; in genere, risparmiando il più possibile su ogni «voce»
restringibile (vedi salari, manutenzione, prevenzione degli infortuni, mensa,
pause, ecc.), e riducendo al massimo sull’organico.
La
flessibilità e la precarietà degli stili di vita e della strutturazione
dell’ordine neoliberista convivono cosi, nell’unità dialettica dell’uniclassismo.
Il potere
capitalista, per un verso, occulta la contrapposizione tra classi. Per un
altro, in modo convergente, impedisce che i conflitti e i dissensi che continuano
oggi a moltiplicarsi sotto il cielo assumano la forma unitaria di un solo,
grande dissenso verso il sistema del fanatismo economico e dell’alienazione
garantita.
Laddove la
lotta tra le classi andava pur sempre a confliggere con i rapporti di forza
dell’economia, la lotta -favorita artatamente dall’odierno ordine del discorso
fra eterosessuali e omosessuali, fra immigrati e autoctoni, fra atei e
credenti, fra rossi e neri, fra uomini e donne, fra cristiani e islamici non li
sfiora nemmeno.
Anche
dissensi e lotte di per sé nobilissimi, come quelli in difesa dell’acqua
pubblica, dei diritti delle donne e della respirabilità dell’aria contro
l’inquinamento o, ancora, dei diritti delle minoranze contro le
discriminazioni, mancano di un loro comune orizzonte di senso che assuma
l’unitarietà del genere umano come soggetto da emancipare dall’alienazione
capitalistica e dal classismo economico.
Complici i
servi del capitale, il nemico sarà sempre individuato nell’altro particolare,
mai nel sistema economico dominante; con la conseguenza, del tutto paradossale,
per cui il giovane disoccupato islamico si illuderà che il suo rivale sia il
giovane disoccupato cristiano e non il magnate della finanza, signore del
globalismo che pratica la delocalizzazione del lavoro e la volatilizzazione dei
capitali. O, ancora, l’omosessuale disoccupato o precario riterrà
surrettiziamente di essere più simile a un omosessuale proprietario di imprese
multinazionali che a un eterosessuale disoccupato o precario.
E anche
coloro che spingono il dissenso verso la tutela e il riconoscimento di diritti
fondamentali, mai si spingono ad individuare e dirottare il conflitto verso il
nemico reale.
Il potere
raggiunge il grado massimo del controllo sulle anime, allorché riesce a convincere
le menti degli schiavi che il nemico sia chi è nella loro stessa condizione, o
addirittura, chi sta più in basso e non più in alto rispetto a loro.
Per questa
via, il «conflitto» è dispersivamente frammentato nei mille rivoli delle
opposizioni secondarie o, in ogni caso, tali da distogliere l’attenzione dalla
contraddizione principale e da creare contrapposizioni tra gli ultimi.
Cosi, si
polverizza la coscienza di classe e si impedisce preventivamente il costituirsi
di un fronte unitario degli offesi del pianeta contro l’oligarchia finanziaria
e in difesa di un assetto autenticamente democratico, fondato su rapporti tra
individui liberi, uguali e solidali.
Dal
femminismo individualista al pacifismo rituale, dallo scontro virtuale tra atei
e credenti a quello oggi altrettanto virtuale tra destra e sinistra,
dall’ecologismo di maniera all’ipocrita elogio dei migranti accompagnato
dall’indifferenza verso la loro reale condizione, si moltiplica di giorno in
giorno il fronte dei dissensi scissi dal grande dissenso. Tutti diversi, sono
però accomunati dalla lotta contro gli aspetti più disparati del sistema, ma
mai contro la produzione capitalistica in quanto tale.
Una
rappresentazione a suo modo, tragicomica dell’odierna società, ci è restituita
dalle manifestazioni di piazza che, negli ultimi 30 anni, si sono sempre più
presentate nella forma del corteo da commedia: sindacalisti col fischietto,
seguiti da femministe allegre e da individui travestiti da pagliacci sui
trampoli, a loro volta accompagnati da pacifisti, e a chiudere la sfilata,
facinorosi in passamontagna e vestiti di nero, che incendiano cassonetti e
spaccano vetrine ampiamente assicurate.
Questi
cortei e le diverse componenti di appartenenza non costituiscono, ovviamente,
un’opposizione al sistema economico. Con le processioni scenografiche rivolte
verso tutto fuorché la società di mercato, svolgono, anzi, una funzione anestetizzante
rispetto al dissenso.
Di più, si
rivelano uniformati all’Europa monetaria, <<come è accaduto in occasione
della ricorrenza dei 60 anni dei trattati europei, con manifestanti che
attaccavano il sistema di potere e di classe e rivendicavano l’immediata uscita
dall’euro, Europa e Nato, e chi
invece pur contestando il sistema in modo camaleontico né assecondava la
continuità >>, del quale condividono il progetto dell’estinzione degli
Stati e della famiglia, della cultura e delle comunità solidali in nome del pensiero
unico completamente omologato e senza differenze che non siano quelle
economiche.
Nell’epoca
dell’individualismo degli egoismi senza slancio, anche i dissensi restano
autoreferenziali, sconnessi da una prospettiva più grande che sappia
accoglierli e, insieme, organizzarli nella forma del «conflitto» verso la
civiltà dei consumi.
Nell’odierno
quadro, il disarmo del dissenso e delle conseguenti pratiche dell’opposizione
in nome della società emancipata non scalfiscono, e nemmeno nominano, la
contraddizione principale.
La questione
economica è sostituita dalla questione morale, i diritti sociali da quelli
civili, la lotta contro l’ordine ingiusto dal legalismo che sanziona chiunque
non lo rispetti.
Dal
«pensiero forte» della militanza rivoluzionaria si è disinvoltamente transitati
a quel «pensiero debole» della tutela delle minoranze che frammenta la lotta in
mille rivoli (dagli scontri femministi all’ecologismo, dalle battaglie per la
legalità ai girotondi pacifisti). Giunge, cosi, a compimento l’evoluzione
dissolutiva e narcisistica del profilo individualistico della nuova sinistra
antiborghese e ultra capitalistica.
In
particolare, i diritti civili, di per sé giusti e nobili, vengono oggi
impiegati come arma di distrazione di massa per occultare il trionfo su tutta
la linea delle politiche neoliberiste di smantellamento dei diritti sociali in
nome della riorganizzazione del lavoro e del taglio della spesa pubblica.
Lotte di per
sé giuste come quella per le unioni civili omosessuali, quelle del femminismo e
dell’animalismo radicale rivelano, in quanto completamente disgiunte dalla
questione sociale e dall’opposizione al fanatismo economico, che una nuova
cultura postborghese e postproletaria ha sostituito i valori centrati sulla
dignità del lavoro e dei diritti sociali e, con essi, la contestazione
operativa del modo capitalistico della produzione.
Per un
verso, con generosità solo apparente, il fanatismo economico fa dono dei
diritti civili per distrarre dalla rimozione in‘ atto di quelli sociali; e, per
un altro verso, la critica conservatrice delle forze politiche dell’opposizione
ideale di sua maestà le Capital mobilitano le masse in difesa dei primi,
affinché le rivendicazioni non investano mai i secondi, né emerge l’avvenuto cambiamento
delle forze che un tempo lottavano contro il capitale al pensiero unico e all’omologazione
alla lotta per il capitale.
L’ideale di
riferimento non è più quello da cui possa finalmente rinascere un sistema
solidale e in cui ciascuno sia ugualmente libero rispetto a tutti gli altri,
ovvero un sistema socialista.
Il solo
orizzonte innovativo che ci viene permesso coincide con l’individuo sovrano e isolato
in se stesso, portatore di diritti individuali e privo di ogni diritto sociale,
senza legami che non siano le catene che lo vincolano al circuito dello scambio
e del consumo, della produzione fine a se stessa e della crescita infinita.
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