L’innovazione
tecnologica, sta determinando progressi per l’umanità, ma allo stesso tempo
crea enormi disagi sociali.
Meno uomini e più macchine, macchine capaci di
gestire autonomamente quasi l'intera filiera produttiva, è la strada intrapresa
dall'industria mondiale.
Un modello che secondo
il recentissimo rapporto “The Future of the Jobs” presentato in
occasione del World Economic Forum, di
Davos, i paesi occidentali stanno
attraversando la quarta rivoluzione industriale: il mondo del lavoro sta
radicalmente cambiando rispetto a com'era qualche decennio fa, robot e software
stanno ridisegnando ogni aspetto della società e dell'economia: ciò determinerà
una perdita di 7 milioni di posti di lavoro a causa di robot, intelligenza
artificiale e simili entro il 2020, entro il 2025 un terzo delle mansioni oggi
svolte dagli esseri umani sarà portata a termine da software o robot, in
pratica avremo un SOFTWARE
per COLLEGA.
Ma a differenza degli
anni 70 con la precedente rivoluzione industriale, non colpirà solo nelle
fabbriche, a essere a rischio non sono più solo i lavori pesanti, ripetitivi o
logoranti che verranno affidati alle macchine: per la prima volta nella storia
l’elettronica sta entrando anche nel mondo dei colletti bianchi e dei
cosiddetti “lavori della conoscenza”: scienziati, ricercatori, insegnanti,
medici, professionisti, lavori amministrativi o da ufficio, ambito in cui le
macchine si incaricheranno di un numero sempre maggiore di lavori di routine,
l'energia, la finanza, la produzione e la cura della salute.
I nuovi supercomputer
sono oggi in grado di portare a termine numerosi processi tradizionalmente
affidati agli impiegati, per esempio archiviare dei documenti o effettuare un
pagamento, ma anche affiancare un architetto o un ingegnere durante la
realizzazione di un progetto.
Oggetti connessi, case
intelligenti, auto che si guidano da sole, robot: piccole e grandi rivoluzioni
tecnologiche nate per semplificarci la vita ma che contribuiscono anche a
rimodellare profondamente la società in cui viviamo.
La robotica, il
trasporto autonomo e l'intelligenza artificiale daranno il colpo di grazia.
La tecnologia è quindi
uno dei motivi principali della stagnazione, della perdita di posti di lavoro e
addirittura dell’impoverimento per la maggioranza della popolazione.
Il combinato disposto
di queste informazioni dice una cosa molto semplice, siamo all’estinzione
degli operai.
In una fabbrica-laboratorio l’operaio è superfluo. Serve un lavoratore capace di dialogare con i sofisticati sistemi tecnici specializzati in dati, ingegneri informatici o digitali. Insomma, nuove figure che non dirigono macchinari, ma si fanno assistere da loro in una sorta di “tempi ultramoderni”, dove Chaplin non è più subordinato alla tecnologia ma è estinto.
Ma
è ovvio e inevitabile il ruolo del Sindacato. In questi anni sono spariti
milioni di posti di lavoro, frutto di una inadeguata subalternità delle forze
politiche e sindacali alle imposizioni capitaliste. Il sindacalista
rivendicativo che difendeva e pretendeva il lavoro è morto ancor prima dell’operaio.
Il
sindacalista che vuole il padronato è, “esplorativo”, “analitico”, “psicologo”,
che rappresenta i futuri tecnici del pensiero, non sbraita, non grida, non
minaccia e non protesta, ma collabora, sempre disponibile e privo di ideologie.
Accettando le logiche di impresa e percorrendo nuove strade dopo aver
determinato la fine dei “vecchi lavoratori”, e qui torna utile la parte
“psicoanalitica” del nuovo sindacalista. Che deve curare i nuovi processi, ma
anche consolare.
La
conoscenza genera automazione. Non è questo il male. Il male è l’assenza di un
welfare, la volontà di utilizzare l’innovazione per aumentare i profitti mentre
dovrebbe essere utilizzata migliorare le condizioni di vita dei popoli.
Servono
nuove politiche economiche e sociali poiché la bella favola tecnologica “c’era una volta una rivoluzione che
produceva tanta occupazione” è appunto solo una bella favola. L’economia
della conoscenza non sostituisce tutti i vecchi lavori con dei nuovi. Non è il
lavoro a diventare superfluo (anzi aumenta) ma la forza lavoro.
Ma
non è solo la rivoluzione tecnologica a determinare la fine dell’operaio, ma vi
sono anche altri fattori, “le scellerate politiche europeiste e monetarie
imposte e avvallate dai governi che si sono succeduti”.
L’Euro
è anche responsabile, a lungo termine, di un’accelerazione del processo di
deindustrializzazione, incrementata dall’inizio degli anni Novanta, ossia a
partire dal trattato di Maastricht. E’ opportuno dunque capire che gli effetti
negativi dell’Euro si sono fatti sentire prima della sua creazione ufficiale
(1999), a causa del quadro macroeconomico che esso ha imposto e che ancora
legittima.
Secondo
alcune stime il 60-65% della disoccupazione è causato – direttamente o
indirettamente – dall’Euro, provocando un costo considerevole sull’equilibrio
dei piani sociali.
Bisogna,
quindi, insistere su ciò che l’Euro costerà, in termini di disoccupazione e
austerità, per poter essere mantenuto.
Contrariamente
a quanto si dice, l’Italia non ha ancora applicato tutte le misure che verranno
imposte dall’Eurozona. Da questo punto di vista, l’allineamento è rimasto
limitato rispetto a quanto hanno subito la Grecia, la Spagna, l’Irlanda o il
Portogallo.
Se
l’Italia resta nell’Euro, saranno “necessari” nuovi piani di austerità. I loro
effetti cumulativi si tradurranno in un totale declino del reddito medio del
15% – 20%. Non solo l’Euro è costato molto caro, ma questo costo crescerà nei
prossimi anni e condurrà allo smantellamento totale del sistema sociale.
Questo
smantellamento non si traduce solo nella riduzione delle prestazioni sociali e
delle pensioni, ma anche in uno smantellamento generale di tutti i servizi
pubblici, soprattutto nel campo della salute e dell’istruzione. Il «risparmio»
fatto in questi servizi avrà conseguenze gravissime a medio e lungo termine
sulla società.
La
combinazione del ristagno (o della riduzione) delle entrate dirette e della
regressione dei redditi (e dei diritti) indiretti provenienti
dall’indebolimento dei servizi pubblici spingerà la società Italiana verso una
crisi molto profonda.
Va
infine ricordato che l’Unione Economica e Monetaria non è principalmente una
moneta, ma prima di tutto un sistema che garantisce il dominio liberalizzato
delle finanze e suppone una «disciplina» delle società, cioè le costringe a
rispettare i dogmi sociali del capitalismo.
È
l’idea governare le società attraverso norme e regole imposte sotto la
protezione di misure cosiddette ‘tecniche’ e pertanto prese in nome di una
razionalità indiscutibile. Da questa negazione della democrazia, al tempo
stesso solida e sottile, deriva gran parte della crisi delle istituzioni
europee.
L’Euro
è in realtà un sistema che finisce per portare le questioni economiche fuori
dall’ ambito politico nazionale e tutti i problemi sociali gli vengono
assoggettati. Questo discorso sulle conseguenze passate e future dell’Euro deve
essere costantemente ricordato per convincere gli Italiani che la continuazione
dell’Euro offre loro solo un futuro di restrizioni e di miseria.
È
anche chiaro che l’uscita dell’Euro dovrà essere gestita e prevede misure al
tempo stesso tecniche, finanziarie e macroeconomiche. Di conseguenza, se siamo
consapevoli dei problemi sia attuali che futuri, sia economici che politici,
che l’esistenza della moneta unica genera, è opportuno valutare che misure
bisognerà prendere.
Queste
misure, in realtà, sono note, ma solo a una piccola cerchia di specialisti. Una
parte del discorso «allarmista» gioca appunto sull’ ignoranza nella quale viene
mantenuta gran parte della gente. L’uscita dall’Euro viene presentata come un
«salto verso l’ignoto», il che non è vero.
Si
dice che lo «shock finanziario» sarà terribile e sarà associato ad una «scossa
economica» che potrebbe causare un forte regresso della produzione e un aumento
della disoccupazione. Queste dichiarazioni sono in realtà menzognere. E queste
menzogne sono pronunciate da persone che spesso sono particolarmente ben
piazzate per conoscere i fatti. Ciò è gravissimo.
Per
poter condurre una gestione globale del settore finanziario dagli effetti
dell’uscita dell’Euro, sarà dunque importante procedere ad una temporanea
nazionalizzazione di alcuni settori: finanziari (bancario e assicurativo),
produttivi (aziende di interesse nazionali), servizi (comunicazioni, mobilità),
ecc.
L’opinione pubblica è
attualmente convinta che l’Euro rappresenta un ostacolo alla crescita e allo
sviluppo del Paese, ma è indecisa all’uscita dall’Euro, a causa di questa
preoccupazione che viene sfruttata dalla stampa che diffonde predizioni
catastrofiche.
Ecco perché questo problema deve essere affrontato
pubblicamente. Da un lato, è opportuno avviare un processo informativo per
convincere della fattibilità di tale uscita. D’altra parte bisogna anche
evitare di trovarsi rinchiusi in quella che possiamo definire «l’opzione greca»:
un rifiuto di austerità e un rifiuto di uscire dall’Euro.
Queste due proposte,
in realtà, sono contraddittorie.
E’ dunque importante poter
avere un dibattito sulla questione dell’Euro fuori da qualsiasi contesto
catastrofista. È una necessità per la democrazia, ma è anche una necessità
perché l’opzione dell’uscita dall’Euro non sia bloccata a priori da false
predizioni.
Ora come non mai, il
compito di regolare questo sconvolgimento spetta - o quantomeno spetterebbe -
alla politica al governo e alle O.S..
La somma delle due esposizioni sopra citate
sono promotrici di un terribile scenario (disoccupazione di massa,
disuguaglianza, l’impoverimento delle masse popolari) , per evitarlo saranno
fondamentali oltre quando detto in precedenza, una serie di politiche che vanno: dalla riqualificazione
e aggiornamento dei lavoratori, ridistribuzione del lavoro esistente attraverso
la riduzione dell’orario di lavoro, forme di reddito sociale, ma è altrettanto
evidente la necessità di cambiare l’idea
stessa di lavoro, ma tutto ciò cozza con le scelte politiche dei governi che
hanno creato l’organizzazione economica
esistente.
Ma è evidente che un
cambio di “sistema” usualmente risponde a un preciso bisogno sociale, come fu
per il sistema keynesiano l’uscita dalla depressione degli anni ’30.
Il padronato di fronte
alla rivoluzione digitale e a quella dell’intelligenza artificiale risponde con
un desiderio di “continuità” a voler
salvaguardare le vecchie fisse del capitalismo durate per secoli, un’intera
economia e società è stata plasmata secondo le teorie e pratiche della produzione
di massa e dei costi marginali, del massimo profitto.
Se al posto dell’uomo
lavorano le macchine, allora forse è giusto che si guadagni al posto loro,
visto che sono loro a generare produttività e ricchezza sempre maggiori.
Se
ieri l’obbiettivo politico-economico era “lavoro
per tutti” domani dovrà essere “dividendo
per tutti”.
La premessa serve a
motivare una prima semplice conclusione: il futuro del lavoro cui dovremmo
tendere, per citare le affermazioni del WEF, “non può che essere un cambiamento del concetto di lavoro che conduca
alla definitiva scomparsa della disoccupazione dalle nostre società”.
La
disoccupazione, come categoria sociale prima ancora che statistica è una
diretta conseguenza dell’idea di lavoro che abbiamo istituzionalizzato negli
ultimi trecento anni.
Un’idea figlia quindi
di un paradigma economico che adesso intravede la quarta (finora) rivoluzione
industriale ma che ancora non sa guardare oltre il suo "limite estremo".
Nel caso della
disoccupazione, il "limite", sono la mancanza di reddito, che la
disoccupazione provoca, e la mancanza di motivazione sociale di una persona
senza lavoro.
Superare questo "limite" significa, individuare un modello sociale in cui sia *estremamente
difficile essere privi di un reddito, che sarebbe più giusto definire potere
d’acquisto, e di una *motivazione sociale.
Nessun commento:
Posta un commento