costruendo una vera e propria mitologia volta a nobilitare la storia delle origini della UE. Le posizioni del PCI, che nel 1957 definì il mercato comune (MEC) come “la forma sovrannazionale che assume nell’Europa occidentale il capitale monopolistico”, suonano tutt’oggi tragicamente profetiche e di innegabile attualità. Più volte si è tentato, in questi anni, di identificare la lotta contro la UE con l’estrema destra, argomento brandito proprio dalla sinistra che ha fatto dell’europeismo (più o meno “critico”) e della sostanziale difesa della UE la sua bandiera. Ciò che emerge da questi articoli è che la lotta contro la UE è stata sin dall’inizio una battaglia dei comunisti, e che al contrario fu proprio il progressivo allontanamento del PCI dalla teoria e dalla prassi comunista (allontanamento che sarebbe giunto a termine nel 1991 con il suo auto-scioglimento e la nascita del PDS), negli anni dell’“eurocomunismo”, a sancire l’approdo di quel partito all’europeismo. Una profonda responsabilità della sinistra, nella quale vanno ricercate molte delle ragioni dell’avanzata dell’estrema destra proprio sul terreno della lotta contro la UE (declinata tuttavia in termini reazionari e non progressisti, cioè come ritorno alla “sovranità nazionale” e non come conquista del potere popolare e del socialismo). È solo ristabilendo la giusta posizione contro la UE che i comunisti possono ricominciare ad avanzare. Conoscere la nostra storia è il primo passo per non commettere di nuovo gli stessi errori.
1) I
comunisti sono “europeisti”?
Si sente dire spesso che il processo
d’integrazione europea appartiene alla nostra tradizione politica. Un elemento
ideale di fondo, come quello evocato da Bertinotti nel discorso del 23 marzo
2007 quando da Presidente della Camera parlò dello «spirito della fondazione
dell’Europa che oggi celebriamo e che dobbiamo recuperare». È l’idea di
un’Unione Europea sorta su un piano ideale più elevato ed oggi costretta in
modo forzato nelle anguste visioni tecnocratiche e finanziarie di Bruxelles.
Un’Europa da riformare, da ricostruire dalle originarie fondamenta, per
riconquistare la reale natura voluta dai suoi fondatori.
Si tratta di uno degli argomenti più in
voga utilizzati in questo momento dalla sinistra radicale (post o cripto
comunista) che si candida in Parlamento Europeo a sostegno del leader greco di
Syriza, e che oggi rivendica con fierezza il proprio contributo ideale a
politico alla costruzione dell’Unione Europea. Questa sinistra è impegnata
nella ricerca di un passato “nobile” della UE per meglio giustificare il suo
sostegno all’integrazione europea dato nel momento più alto della crisi
economica, in cui la contrarietà alla UE inizia a farsi strada con forza tra la
popolazione. Come ogni storia che si rispetti il passare del tempo allenta la
memoria collettiva, sbiadisce e distorce i fatti e ne altera la reale
percezione. È un fenomeno molto diffuso nella sinistra di questi anni, che si
riduce spesso a difendere posizioni una volta osteggiate, anche con forza,
limitando i propri orizzonti in una spirale continua di sconfitte e
arretramenti di posizione che conducono inevitabilmente alla capitolazione
totale nei confronti del nemico di classe.
Il mito dell’Europa nata sulla spinta
ideale progressista deve cedere il passo alla realtà delle cose. Nel 1957 la
ratifica dei Trattati di Roma, con cui vennero istituiti la CEE e
l’Euratom, vede il voto contrario e la netta opposizione del PCI, come
altrettanta opposizione avviene da parte del PCF in Francia, allora i
principali partiti comunisti dei paesi coinvolti. Un’opposizione che si era
registrata fin dagli albori del processo d’integrazione anche in riferimento
alla CECA e alla mai varata CED, che avrebbe dovuto creare un sistema di difesa
comune europea, anch’esso osteggiato dai partiti comunisti e mai entrato in
vigore per il voto contrario del Parlamento francese.
Quando
nel 1957 alla Camera dei Deputati viene chiesta la ratifica del trattato di
Roma, la posizione comunista – espressa da Giuseppe Berti, relatore della
mozione con cui si chiedeva di non ratificare il trattato – non potrebbe essere
più chiara. Si parlava allora non di CEE ma di MEC poiché la Comunità Economica
Europea era conosciuta principalmente con il nome di Mercato comune, una scelta
tutt’altro che casuale e che non mascherava la reale natura dell’operazione,
che più tardi ha voluto caratterizzarsi per i suoi fini “nobili”. Berti, tra
gli applausi dei deputati comunisti alla Camera, affermò: «Non ha senso dire che il MEC è una cosa e il capitale
monopolistico un’altra: il MEC è la forma sovrannazionale che assume
nell’Europa occidentale il capitale monopolistico.» Era il
1957, il processo di integrazione europea era appena iniziato ma le sue
finalità apparivano già chiarissime. Basterebbe sostituire l’espressione
“Mercato Europeo Comune”, oggi desueta, con “Unione Europea” e avremmo una
sintesi eccezionale della natura reale del processo di integrazione europeo.
Una realtà che i comunisti avevano perfettamente chiara nel 1957 e che ancora
oggi, nonostante l’evidenza empirica, sfugge a molti sinistrati.
I
trattati di Roma furono approvati a maggioranza con voto favorevole della DC e
del MSI (il deputato missino Augusto De Marsanich disse in Aula: “Diamo la nostra leale adesione e il nostro voto a questi trattati,
confidando che essi possano in realtà produrre un incremento di civiltà in
Italia e in tutta Europa”) con l’astensione del Partito Socialista
Italiano. Ma questa storia ha bisogno di essere raccontata bene, con tutti i
suoi particolari, le posizioni politiche e le conseguenze, anche in relazione
alla spaccatura che si creò tra PCI e PSI.
È il 28 luglio del 1957, mancano pochi
giorni al voto di approvazione richiesto per i trattati europei e il PCI ha il
compito non facile di far comprendere alla classe operaia e alle masse popolari
italiane le ragioni della ferma opposizione comunista, su una questione che
appare tanto lontana e, per certi versi, anche spinosa.
Fin da allora l’integrazione europea viene
presentata come un elemento progressivo, come un mezzo per pacificare
definitivamente il continente, rispondere alle esigenze economiche delle
nazioni coinvolte.
Un’intera pagina dell’edizione de l’Unità
viene intitolata «Che cosa significa la sigla MEC» e divisa in riquadri
schematici per facilitare punto per punto la comprensione del trattato
istitutivo del mercato comune. Si tratta anche oggi di uno strumento utile per
comprendere immediatamente la posizione comunista sul trattato istitutivo della
CEE.
Il primo riquadro è dedicato alla
situazione dei lavoratori, il secondo e il terzo alla libertà di scambio e
circolazione, il quarto all’agricoltura ed il quinto alla situazione delle
colonie.
Si legge nell’articolo: «La manodopera italiana entrerà in concorrenza sugli stessi mercati
con la manodopera – a bassissimo costo – dei paesi d’oltre mare»
(bisogna ricordare che all’epoca anche le colonie, non ancora indipendenti
entravano nel mercato comune, il problema era particolarmente sentito per il
Nordafrica ancora sotto dominio francese n.d.r.); «si prevede un aumento di produttività ma non una riduzione
dell’orario di lavoro» e ancora: «l’economia italiana corre il
rischio di vedersi privata della mano d’opera migliore attraverso l’emigrazione
degli operai specializzati».
Il PCI, nel 1957, era ben consapevole
dunque degli effetti potenziali dell’integrazione europea relativamente alla
condizione dei lavoratori, e la maggiore preoccupazione era legata al
Mezzogiorno.
Una preoccupazione che si evidenzia
particolarmente nei punti seguenti, dove il linguaggio chiaro e semplice con
cui il partito voleva comunicare alla classe operaia e ai ceti popolari la
reale natura del trattato internazionale, mirava in primo luogo a smascherare
la terminologia utilizzata e l’abuso del termine “libertà”.
Il
PCI definisce senza mezzi termini la libertà di circolazione come «la libertà
dei monopolisti».
L’analisi
semplice e chiara contenuta in questo punto è validissima ancora oggi. «La “libera circolazione dei capitali” significa che i monopoli di
ognuno dei sei paesi sono liberi di trasferire i loro capitali da una zona
all’altra scegliendo quella dove esistono le possibilità di realizzare maggiori
profitti. Date le condizioni di inferiorità nelle quali si trova la nostra
economia è possibile che attraverso questa libera circolazione di capitali, vi
sia nel nostro paese una penetrazione di tipo imperialistico di capitale
straniero, soprattutto tedesco. In secondo è possibile che si verifichi da
parte dei monopoli italiani una fuga di capitali dall’Italia.»
Sulla
questione dell’abolizione dei dazi doganali e delle barriere al mercato comune
il Partito Comunista spiega gli effetti che avranno. «L’eliminazione di queste tariffe provocherà una concorrenza molto
più aspra tra le diverse ditte operanti nei paesi aderenti; se si esamina la
struttura industriale e la potenza economica delle varie nazioni, si comprende
che la posizione dell’Italia è in generale la più debole di tutte quante tanto
è vero che finora i dazi doganali italiani sono stati i più alti proprio per
proteggere la nostra produzione dalla più robusta concorrenza straniera».
Ma il Partito Comunista non si limita
a parlare di minaccia dall’esterno. La sua non è una posizione
“nazionalista”; al contrario mette in rilievo come la grande impresa
monopolistica nazionale sia parte attiva e promotrice del processo di
integrazione economica europea.
«A questo punto – si legge nella pagina dell’Unità
– potrebbe sorgere la domanda: perché gli industriali non si
oppongono al MEC? Il fatto è che gli iniziatori del MEC sono stati i grossi
monopoli industriali che all’interno del mercato comune avranno sufficiente
forza per poter sviluppare i loro affari ai danni dei piccoli produttori, sia
nazionali che degli altri paesi. La FIAT ad esempio, grazie agli investimenti
americani, è riuscita a portare la sua produzione a un’efficienza tale da
potere, con i suoi prodotti di massa, battere la concorrenza di tutte le altre
case automobilistiche del mercato comune, in quanto è la più grande industria
privata in questo campo.»
In
definitiva, concludeva l’analisi del PCI, «Il coordinamento economico di
cui si parla nel trattato si risolverà in pratica in intese sempre più strette
tra i vari monopoli per la spartizione del mercato a scapito dei piccoli e medi
produttori sostituendo così alla protezione doganale una spartizione delle
sfere di influenza tra i grandi monopoli.»
La preoccupazione del Partito era
rivolta anche all’agricoltura dove si evidenziava il rischio del medesimo
processo di concentrazione della proprietà a danno dei contadini salariati e
dei piccoli contadini autonomi. Così come la libertà di circolazione delle
persone era già messa in relazione al problema dell’immigrazione interna alla
sfera comune, con le sue ripercussioni sui livelli salariali e sui diritti dei
lavoratori. Riguardo alla situazione francese il problema delle colonie e la
loro integrazione nel MEC erano giudicati uno strumento di pressione per
compromettere il legittimo diritto all’autodeterminazione dei popoli coloniali.
Per queste ragioni il PCI nel 1957 votò contro l’approvazione dei trattati
europei, ma la sinistra italiana che pure si richiama a vario titolo alla
tradizione e alla storia del PCI non lo ricorda.
2)
1957: quando il PCI disse no all’Europa.
A Giuseppe Berti, intellettuale
comunista, dirigente del partito e deputato alla Camera, è affidato il compito
dell’analisi dei trattati, che a grandi linee sarà pubblicata sempre su l’Unità
nei giorni del dibattito parlamentare. Bisogna tenere a mente che gli anni che
precedono il voto sui trattati europei sono cruciali nello sviluppo storico
successivo. La morte di Stalin nel 1953, con il XX congresso del PCUS,
l’invasione dell’Ungheria e il progressivo distacco PCI-PSI, ma anche la
questione del canale di Suez, con Francia e Inghilterra che ritirano su ordine
degli USA le proprie truppe dall’Egitto. Sullo sfondo dei trattati c’è lo
scontro tra il blocco capitalista e quello socialista, la questione coloniale,
e la conseguente perdita di territori per i paesi a capitalismo avanzato con i
quali tenere livello di scambio economico. Il nuovo potenziale economico
tedesco che viene ricostruito non ha territorio sufficiente essendo bloccata ad
est dai paesi socialisti. La Francia sta perdendo il suo impero coloniale.
Insomma alla radice del mercato comune europeo c’è la necessità di aprire
quegli spazi economici che la divisione in blocchi e in parte la
decolonizzazione fanno progressivamente mancare alle economie capitalistiche
avanzate.
Oggi quando pensiamo all’Unione Europea
siamo abituati a pensare ad un processo spontaneo dei popoli europei, a
dimenticare la divisione della guerra fredda, e l’influenza di quella divisione
sugli equilibri europei. Anche qui il passaggio del tempo distorce la verità,
la mitologia si sostituisce alla realtà. Allora al contrario i comunisti
non avevano alcun dubbio sull’origine del processo di integrazione dell’Europa
occidentale, che Pajetta definiva negli interventi alla Camera “la piccola
Europa”, proprio per metterne in luce la parzialità rispetto alla chiusura ad
est. Si trattava di un processo voluto dal grande capitale e appoggiato con
forza dagli Stati Uniti in funzione anti-sovietica per rispondere
all’integrazione economica tra paesi socialisti all’est. Un progetto che teneva
insieme interessi monopolistici del grande capitale, privato degli sbocchi
naturali sul continente e sulle colonie, con quelli al riarmo specie della
Germania in funzione anticomunista, nel quadro della comune alleanza militare
con gli USA per il tramite della Nato.
Collage
di titoli de l’Unità, organo del PCI
L’analisi di Berti, che il deputato
comunista riproporrà nei suoi interventi alla Camera, è profonda, non scontata,
minuziosa e chiarissima per quanto embrionale fosse lo stato del giudizio che
allora si poteva dare sulla nascente Comunità Economica Europea. È un’analisi
che ha il pregio di parlare anche a noi, a oltre sessant’anni di distanza, e
che nonostante lo sconvolgimento politico ed economico che è avvenuto negli
ultimi anni individua correttamente situazioni che ci troviamo ad affrontare
quotidianamente.
I
comunisti – dice Berti – sono contro il MEC «perché sono contro il tentativo
dei monopoli di asservire il progresso tecnico, l’automazione, l’energia
atomica ai loro propri fini creando una comunità sovrannazionale sotto la loro
direzione. È falso il quadro di un capitalismo ascendente e trionfante […] Si,
c’è oggi una congiuntura favorevole, ma per quanto tempo? Il capitalismo esce
da due catastrofi di colossale grandezza: la perdita di potere su quasi la metà
del globo, la perdita di vastissimi territori coloniali. Ecco perché alla base
del MEC esistono obiettivi elementi di crisi: si cerca un mercato più vasto
perché si sono perduti i territori dell’Europa orientale e i territori
coloniali; ma appunto per questo ci si contenta in senso antisocialista e
antidemocratico e si approfondisce la frattura nel mondo e si domanda alle
masse lavoratrici di pagare le spese di questa operazione.»
Berti affronta il quadro spinoso del
rapporto sovranità nazionale apertura internazionale in modo chiarissimo, e con
una capacità d’analisi che oggi non si intravede minimamente nei dirigenti
della sinistra radicale post-comunista e opportunista. Come si coniuga
l’internazionalismo tradizionale del movimento comunista con la contrarietà al
processo unitario tra i paesi europei? Un dilemma a cui ancora oggi in tanti
non riescono a rispondere senza vedere contraddizioni, lì dove al contrario è
lampante la soluzione al problema. I comunisti sono internazionalisti ma non
per le unioni internazionali dei capitalisti. I comunisti sostengono la lotta
comune in ogni paese del mondo, ma non per questo non comprendono quali
processi si celino dietro l’integrazione europea. Oltre le illusioni e le
favole, i comunisti guardano ai rapporti di produzione. E capita che il PCI
venga accusato di essere “protezionista” da chi usa strumentalmente questo
elemento per attaccare la posizione dei comunisti.
In
aula Berti replica a queste accuse. «Non è vero che i comunisti
pongano l’accento soltanto sui riflessi tariffari: è ridicolo sostenere che i
comunisti sono “protezionisti”. Il problema tariffario esiste ed è grave per
l’industria e soprattutto per l’agricoltura del mezzogiorno e delle isole: ma
il problema più grave è che cosa il ceto privilegiato sostituisce al
protezionismo tariffario. Esso sostituisce l’accordo sovrannazionale dei
monopoli all’interno del MEC per schiacciare le masse lavoratrici, la piccola
economia contadina per rendere impossibile o più difficile uno sviluppo sociale
democratico. Non ha perciò senso dire che il MEC è una cosa e il capitale
monopolistico un’altra: il MEC è la forma sovrannazionale che assume
nell’Europa occidentale il capitale monopolistico. Ci si dice che in questa
battaglia noi siamo isolati. Ma noi siamo in larga e qualificata compagnia: i
lavoratori italiani, i piccoli e medi produttori economici, hanno già compreso
quali gravi danni apporterà il MEC a loro e al paese. Noi non cesseremo la
nostra lotta alla testa del popolo italiano.»
Un punto di grandissima rilevanza è il
rapporto con il PSI in relazione al voto dei trattati. Nel 1957 il Partito
socialista con un voto a maggioranza del suo comitato centrale (59 favorevoli,
13 contrari, 2 astenuti) decise di astenersi sul trattato istitutivo della CEE
e di votare a favore di quello sull’Euratom. La decisione del PSI acuiva
ulteriormente la frattura creatasi con il PCI al momento dell’intervento
sovietico in Ungheria e costituiva una delle prime scelte che vedevano un voto
sensibilmente differente tra PCI e PSI, con ripercussioni anche sulla CGIL. Il
voto era il risultato anche dell’attività dell’Internazionale socialista che da
mesi si era spesa fortemente per l’integrazione europea. Una parte di primo
piano l’avevano fatta i socialisti francesi che dalla formazione del governo
Mollet esercitavano insieme con i socialisti tedeschi una funzione di traino
nel processo di costruzione del mercato comune. In Parlamento la scelta
del PSI di astenersi fu oggetto di dure critiche del PCI ed in particolare da
Pajetta che più volte interruppe Lombardi (PSI) mentre esponeva le motivazioni
dell’astensione. Due episodi devono essere considerati per comprendere le
preoccupazioni dei comunisti.
Il
21 luglio l’Unità apriva il giornale con un titolo a lettere cubitali: «Confindustria punta sul MEC per liquidare l’industria di Stato» basandosi
sulle dichiarazioni di Malagodi, segretario del Partito Liberale «i cui legami con la Confindustria – scrive l’Unità
– sono noti a tutti» Malagodi «ha
mostrato con grande chiarezza il vero volto dell’operazione che il governo si accinge
a varare. Infatti dopo le consuete, generiche espressioni di fiducia sul
Mercato comune, come risolutore di tutti i principali problemi italiani […] Dai
trattati – egli ha rilevato – non possono che derivare logiche conseguenze di politica interna poiché
non è possibile seguire un indirizzo (che è quello della massima libertà ai
potenti monopoli interni e internazionali) per applicare il Mercato comune e
l’Euroatom, e uno diverso all’interno del paese.» Il segretario
liberale aveva illustrato alla Camera la necessità di aprire una stagione di
liberalizzazioni, dismissioni delle imprese di Stato e evitare ogni nuova forma
di nazionalizzazione e aveva favorevolmente accolto l’astensione socialista,
che testimoniava a detta di Malagodi, il fatto che i socialisti non erano più
insensibili all’idea della libertà. Parole che al PCI suonavano come un forte
campanello d’allarme.
La
seconda questione riguarda la CGIL. La posizione del sindacato infatti era
molto più simile a quella del PSI che non a quella del PCI, nonostante il
Partito Comunista facesse di tutto per evitare che questa frattura si palesasse
e avesse ripercussioni sull’unità della CGIL. Il 19 luglio la CGIL si era
espressa a favore del processo di integrazione europeo, pur tuttavia mettendo
in evidenza i lati negativi e indicando la necessità della lotta dei lavoratori
contro le possibilità che tale processo si svolgesse in senso reazionario. Non
ci fu nessuna polemica esterna. L’Unità pubblicò il dispositivo della CGIL come
se nulla fosse, ogni commento dei comunisti riguardava le critiche contenute al
MEC ma non si nominava mai il passaggio precedente. Ma se sulla critica
comunisti e socialisti erano uniti, sulla posizione immediata erano su
posizioni differenti. Il sì generico della CGIL restava ed era chiarissimo: «Nonostante gli inconvenienti di natura transitoria, (…) il
Comitato Esecutivo ritiene che essa vada appoggiata e incoraggiata, perché può
recare – in prospettiva – un contributo fondamentale e – in una certa misura –
insostituibile allo sviluppo generale delle economie europee e al miglioramento
delle condizioni di vita dei lavoratori». La parte socialista della
CGIL aveva fatto il suo, ma certamente Di Vittorio, con cui c’erano state
frizioni interne al PCI sull’Ungheria, non l’aveva osteggiata troppo,
probabilmente anche in accordo con il vertice del PCI che di certo non avrebbe
consentito in quella fase una rottura dell’unità sindacale con i socialisti,
proprio mentre quella politica sembrava irrimediabilmente compromessa. Ma con
la neutralizzazione della CGIL, che si decideva di mantenere fuori dalla
questione, il PCI veniva privato dello strumento più importante per la
battaglia politica contro la CEE, che infatti non superò mai le porte del
Parlamento. Come, e forse ancora di più che in altri casi, la critica
parlamentare del PCI e l’opposizione è durissima, ma questo non porta a nessuna
reale mobilitazioni delle masse lavoratrici.
Nonostante ogni tentativo comunista di
modificare la posizione del PSI, di aprire contraddizioni in seno ai socialisti
(che non avevano votato all’unanimità in comitato centrale ma con 13 contrari e
2 astenuti) mettendo in chiaro come fosse la Confindustria ed il grande
capitale a volere l’integrazione europea, il PSI rimase sulla sua posizione.
Alla Camera la mano tesa del PCI si tramutò in attacco esplicito, quando
Lombardi intervenne contro Malagodi, sostenendo che la sua fosse una posizione
ingenua e che lo sviluppo italiano nel mercato comune non avrebbe potuto fare a
meno della direzione statale.
A
Pajetta toccò l’intervento nella seduta del 25 luglio nel quale il PCI
annunciava il voto contrario. La polemica con il PSI è evidente fin
dall’apertura. Dice Pajetta: «Alcuni giorni fa ci è stata
rivolta una ingenua domanda dal giornale del Partito Socialista Italiano.
L’Avanti ha domandato ai comunisti: ma credete davvero che risolverete i gravi,
complessi problemi del Mercato comune con il vostro voto contrario? Noi non
vogliamo rispondere con la troppo facile battuta: ma credete che questi problemi
gravi, profondi, complessi si risolvano con un’astensione?»
Nel suo intervento Pajetta rimarca il
giudizio del PCI con toni molto forti e netti. «L’esame della situazione e la
stessa storia ci autorizzano quindi a porre queste domande: a che cosa servirà
questo strumento, il Mercato comune? Chi lo impugnerà? Contro chi verrà
impugnato? Noi il fascino di questo europeismo lo respingiamo e non possiamo
allinearci dietro la stessa barricata per difendere gli interessi della
Confindustria nel nostro paese. Sbaglia profondamente chi pensa che un’economia
diretta da forze imperialiste possa essere un elemento di progresso
nell’avvenire.»
Pajetta
accusa esplicitamente Lombardi e il PSI di ingenuità rispetto alla natura reale
del MEC anche in relazione all’intervento di Malagodi. «Non vedere questi pericoli, essere sordi a queste indicazioni
significa voler soltanto appiccicare un cartellino con sopra scritto “speranza”
a questa macchina al cui volante siedono forze ben precise: queste forze non
dimentichiamolo, sono i Valletta, sono i Marinotti, sono i potenti monopoli
tedeschi, sono quelle forze che appoggiarono ogni politica più retriva e più
antipopolare, che oggi sostengono il mercato comune. Credo del resto che sia
difficile che queste forze sbaglino quando uniscono il loro amore per il
mercato comune al loro sogno di difendere una economia basata sulla proprietà
privata e sul profitto monopolistico: perché è difficile pensare alla
prospettiva di un’economia diretta senza le leve della tariffa doganale, dei
contingenti, della politica valutaria. Le classi popolari all’interno del Paese
e tutta l’Italia nell’ambito della “piccola Europa” pagheranno caramente
l’approvazione di questi trattati.»
L’intervento di Pajetta presenta alcuni
passi che testimoniano quanto il PCI fosse consapevole di quello che il mercato
comune avrebbe rappresentato. Pajetta esprime bene l’impossibilità dei popoli
di scegliere un cammino differente da quello capitalistico una volta ingabbiati
nel meccanismo del mercato comune. Un elemento oggi estremamente acuito dalla
perdita della sovranità monetaria con l’introduzione dell’euro. La metafora
della speranza e del volante poi, si addice davvero bene a quelle forze che
pensano ancora di poter modificare dall’interno il corso politico della UE,
nonostante l’evidenza di questa impossibilità.
La
dichiarazione finale sul voto comunista è data il 30 luglio dall’allora
capogruppo alla Camera Pietro Ingrao con queste parole: «Votando contro questi trattati intendiamo indicare alla classe
operaia una prospettiva di autonomia e di lotta, intendiamo chiamare la classe
operaia a battersi assieme a tutte le forze sane e minacciate da questi
trattati per dare un corso diverso alla politica internazionale.»
L’Italia entrava ufficialmente a far parte della CEE con il voto di astensione
dei socialisti, con il voto contrario del PCI, unico partito italiano ad
opporsi al processo di integrazione europea.
3) Comunisti e Europa, considerazioni finali.
Come noto la posizione del PCI mutò
negli anni seguenti durante la segreteria Berlinguer e il progressivo distacco
da Mosca. Allora il PCI abbracciò insieme al PCE e al PCF – quest’ultimo non
senza contraddizioni e ripensamenti allora – la politica dell’eurocomunismo con
un avvicinamento alla socialdemocrazia europea e in generale al processo di
integrazione comunitaria. L’associazione ideale del movimento comunista
con il percorso di unificazione europea parte da questo preciso momento
storico, lo stesso del progressivo abbandono del marxismo-leninismo, del cedimento
politico ed ideologico del PCI con cui il partito comunista si sarebbe
incamminato verso il suo mutamento radicale avvenuto formalmente nel ’91, ma
nella sostanza già evidente da tempo. Non si tratta di una coincidenza
temporale casuale. Nel momento in cui si allenta la tensione ideologica tra i
partiti comunisti a livello internazionale, si incrementa l’idea della
reciproca autonomia, delle vie nazionali al socialismo si perdono anche i
riferimenti di analisi che avevano portato ad un giudizio tanto negativo sulla
Comunità Europea nel 1957. Dunque non è all’origine della costituzione della
CEE che i comunisti sposarono la causa dell’integrazione europea. Questo
accadde solo nel momento in cui il Partito Comunista Italiano andava
trasformandosi in un partito socialdemocratico. In questo equivoco di fondo si
inserisce anche la figura di Altiero Spinelli, padre nobile della sinistra
europeista, e oggi invocato a gran voce a copertura di questa operazione. Tutti
ricordano Altiero Spinelli eletto al Parlamento Europeo (come indipendente)
nelle liste del PCI nel 1979, quando ormai il PCI aveva compiuto la sua
parabola sulla CEE e sulla Nato. Pochi ricordano però che Spinelli negli anni
della lotta del PCI contro l’integrazione europea era consulente di De Gasperi,
e che fu membro della commissione europea con prevalente incarico alla politica
industriale dal 1970 al 1976. L’ennesimo ed inequivocabile segno della
consumata deriva del PCI in quegli anni, c’è da ricordare che Spinelli era
stato espulso dal PCI durante gli anni della clandestinità per le sue posizioni
marcatamente anticomuniste.
Dal momento dell’accettazione della CEE,
della Nato e delle istituzioni internazionali del capitalismo occidentale da
parte del PCI, nasce la visione europeista della sinistra italiana, non a caso
quando di fatto si abbandona definitivamente la prospettiva comunista e si
inizia a costruire un partito finalizzato al suo superamento, e al superamento
del patrimonio ideale del marxismo. Gli esecutori materiali della fine del PCI saranno
anche la generazione di nuovi dirigenti della sinistra italiana che
contribuiranno a portare l’Italia nell’euro e a completare il processo di
integrazione della nuova Unione Europea. Saranno la parte determinante della
classe dirigente che ha portato l’Italia al disastro. La stessa sinistra
radicale, nonostante qualche distinguo su questioni limitate, subirà negli anni
e subisce tuttora il fascino dell’operazione europeista di cui, dimenticando
completamente la storia, arriva addirittura a considerarsi artefice. Qui si
consolida l’equivoco di fondo.
Il PCI in precedenza peccò di gravi
errori sul piano strategico, anche in occasione del voto sulla CEE, che non
provocò –come purtroppo spesso accadde negli anni della segreteria Togliatti –
alcuna conseguenza sul piano della mobilitazione generale delle masse, restando
uno scontro, per quanto alto e ineccepibile dal punto di vista dei contenuti,
tipicamente parlamentare. Era la linea tattica, si diceva, del PCI di allora.
Una linea che alla fine si rivelò per tutta la sua portata strategica
nell’accettazione del Parlamento come unico, o almeno privilegiato, luogo di
scontro (istituzionale) nel Paese. La linea del non dare pretesti, del
dimostrare la “responsabilità” del PCI e che ha condotto a capitolare passo
dopo passo. Ma se tali rimproveri possono oggi essere fatti con il senno di poi
a quel grande partito che era allora il Partito Comunista Italiano, nulla si
può obiettare sulla posizione politica che il PCI prese riguardo
all’integrazione europea, che è cristallina, coerente e assolutamente attuale
anche oggi, nonostante il modificarsi di molte situazioni storiche, e ci
consente di fare dei parallelismi molto importanti.
Fin da subito la nascente CEE cercò di
utilizzare il contrasto tra condizioni e livelli salariali dei lavoratori per
abbassare il costo del lavoro e ottenere una leva di ricatto contro le
rivendicazioni operaie. Lo fece inizialmente con le colonie francesi, e durò
pochi anni senza riuscire a dispiegare a pieno i suoi effetti perché nel 1962
l’Algeria ottenne la sua indipendenza. Paradosso della storia ha voluto che
questa fase si riprendesse con forza proprio con la caduta del socialismo
nell’est Europa, terreno naturale di espansione dell’imperialismo europeo.
La struttura economica dei paesi della
“piccola Europa” ha subito importanti variazioni. In tutti questi paesi i
monopoli hanno aumentato la loro influenza strategica nelle economie nazionali.
L’Italia tra i paesi originari è quella che ha subito i mutamenti più grandi
insieme con la Germania, che ha utilizzato l’annessione della DDR come
strumento per lanciare ulteriormente il suo rafforzato potenziale economico,
pagato a caro prezzo dai cittadini della vecchia DDR e dal resto d’Europa.
Tuttavia la diversità iniziale, nonostante il dato generale della crescita dei
monopoli nei singoli paesi ormai intrecciati in una comune ragnatela
continentale, ha continuato a mantenersi nella forma dell’influenza esercitata
nelle economie nazionali dal tessuto delle piccole e medie imprese. Un elemento
come noto, particolarmente importante per l’Italia. Ciò che la politica di
sovranità sulla moneta aveva evitato, non senza conseguenze sui lavoratori, è
stato reso possibile con l’introduzione dell’euro. L’Europa dei monopoli, di
quella che già il PCI nel 1957 giustamente definiva la “libertà per i
monopolisti” ha avuto un ulteriore sviluppo privando gli stati della
possibilità di intervenire sulla moneta. Il risultato è stato un’ulteriore
crescita della concentrazione monopolistica a scapito della piccola impresa,
una perdita di posizioni dei paesi con più elevato livello di piccole e medie
imprese, che hanno risentito maggiormente del combinato dell’introduzione della
moneta unica e dell’allargamento delle aree di libera circolazione (anche
attraverso trattati con stati non aderenti alla UE in un’economia sempre più
globalizzata). Le linee generali di quanto il PCI aveva giustamente previsto
nel 1957 si sono realizzate, anche se con modalità storiche diverse e allora
oggettivamente imprevedibili.
Il risultato è oggi un’Europa dei grandi
monopoli nazionali e transnazionali che comprime i diritti dei lavoratori, che
costringe al fallimento migliaia di piccole imprese e che concentra sempre in
mani più ristretta la ricchezza prodotta, generando disoccupazione, precarietà,
distruzione.
Anche la pretesa di pace che l’Unione
Europea sostiene di realizzare e che in questi giorni ci viene propinata a reti
unificate dagli spot europeisti del governo e della UE nasconde ben altro. Come
disse giustamente Pajetta nel 1957 «Sbaglia profondamente chi pensa che
un’economia diretta da forze imperialiste possa essere un elemento di progresso
nell’avvenire», e aggiungo sebbene fosse già sottointeso, strumento di pace.
L’Unione Europea ha dimostrato di essere pronta a scatenare e sostenere
conflitti in nome degli interessi dei grandi monopoli che rappresenta. Lo ha
fatto negli anni passati in Iraq, in Afghanistan, negli innumerevoli interventi
di natura imperialistica sul continente africano, e oggi anche sul suolo europeo
con il sostegno aperto garantito alle forze più reazionarie in Ucraina in nome
della difesa di quegli interessi.
L’Unione Europea di oggi non è più la
“piccola Europa” del 1957. L’unificazione tedesca ha ricomposto una nazione
economicamente in grado di esercitare una funzione di traino dell’area europea,
che era oggettivamente ridotta al rango di protettorato USA quando sul suo
odierno territorio correva il confine con il blocco comunista. E sebbene i
rapporti con gli Stati Uniti siano centrali nella politica interna ed
internazionale della UE, la situazione dal 1957 è fortemente mutata, per il
peso che l’Unione Europea ha assunto nella competizione imperialistica globale.
Pensare all’Unione Europea come strumento di pace è davvero utopia.
La
stessa che tanta sinistra ancora oggi manifesta. Pajetta criticando il PSI e le
forze di sinistra che non si opposero o votarono favorevolmente all’ingresso
nella CEE disse: «Non vedere questi pericoli, essere sordi a
queste indicazioni significa voler soltanto appiccicare un cartellino con sopra
scritto “speranza” a questa macchina al cui volante siedono forze ben precise:
queste forze non dimentichiamolo, sono i Valletta, sono i Marinotti, sono i
potenti monopoli tedeschi, sono quelle forze che appoggiarono ogni politica più
retriva e più antipopolare, che oggi sostengono il mercato comune.»
Basterebbe sostituire Valletta e Marinotti con Marchionne e Profumo, oppure
Benetton, Marcegaglia, De Benedetti e il resto è ancora valido. Come
l’illusione di voler attaccare un cartellino con sopra scritto “speranza” che
potrebbe essere assunta a paradigma della campagna elettorale di una certa
sinistra radicale ancora oggi. Con l’aggravante che nel 1957 il Mercato comune
era oggettivamente un qualcosa di sconosciuto, dove solo l’analisi economica
dei rapporti di produzione e dei rapporti di forza in quel processo, poteva
dare un’indicazione. Oggi la natura dell’Unione Europea è sotto gli occhi di
tutti, come i risultati delle politiche europee.
Il sogno di un’Unione Europea progressista
e pacifica è un’illusione che non è mai appartenuta ai comunisti. Chi oggi
cerca di dipingere l’antieuropeismo dei settori più coerenti del movimento
comunista in Italia e a livello internazionale, come posizione estremistica,
estranea alla nostra storia e tradizione politica, o peggio come cedimento alla
destra e alle forze definite populiste, dimentica che i comunisti hanno
compreso fin dall’origine la reale natura della UE. E fino a quando le loro
posizioni sono state coerenti ideologicamente con il patrimonio teorico e di
analisi del marxismo si sono opposti al processo di integrazione europea. La
destra, che oggi si scopre paladina della sovranità nazionale, al contrario fu
complice della creazione della CEE in funzione marcatamente anticomunista, sia
a livello internazionale, per la sua opposizione all’URSS e al blocco
comunista, sia interna, con il fine di arginare le possibilità di
trasformazione della società in senso socialista.
Ma oggi una sinistra colpevole e
complice dimentica tutto questo e consente alle forze neofasciste di rifarsi
una verginità politica, attacca chi coerentemente mantiene una netta
contrarietà all’Unione Europea dipingendolo come settario, eretico, o peggio
ancora. Nel dare il proprio sostegno al processo di integrazione europea e nel
costruire artificialmente il mito dei nobili ideali all’origine dell’Unione
Europea, la sinistra radicale post o cripto comunista contribuisce a farsi
portatrice dell’inganno storico che subiamo, di cui diviene parte attiva. Al
servizio, oggi come ieri, dei padroni di questa Europa, dei grandi monopoli
industriali e finanziari le cui regole sono divenute diritto comune a scapito
dei lavoratori. Una enorme responsabilità storica.
*di Alessandro Mustillo, 2014.
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