Analizziamo lo stato di cose senza opportunismi e stupidita
ideologiche tipo, il privato è bello.
Le recenti difficoltà registrate dalla sanità italiana, travolta
dall’emergenza corona virus, sono frutto di anni di tagli devastanti, indotti
dalle politiche economiche dell’Unione Europea.
Il modello disegnato
da Maastricht in poi si regge sull’assunto che i
paesi aderenti all’Unione debbano realizzare un tendenziale pareggio di bilancio, debbano cioè spendere quel
tanto che è consentito dalla fiscalità generale.
Ciò risulta
cristallizzato negli ormai famosi parametri presi a riferimento come indice di
solvibilità e buon andamento di un paese, non
suffragati da alcuna teoria economica, secondo i quali il
deficit pubblico non dovrebbe superare il 3% in rapporto al PIL e il debito
pubblico dovrebbe mantenersi entro il limite del 60% rispetto al PIL.
Quello che conta è che le azioni suggerite da questa
impostazione hanno spinto nel tempo al progressivo contenimento della spesa
pubblica nei vari paesi membri, con gravi conseguenze su tutti i capitoli di
spesa dei bilanci pubblici, dalla sanità, alla ricerca, alle pensioni,
alla scuola, alla manutenzione del territorio.
A fronte di una drastica retrocessione degli stati, rispetto ai
compiti tradizionalmente assunti dal secondo dopoguerra fino ai primi anni
novanta, la formula classica suggerita per sostenere il PIL è stata quella di
favorire gli investimenti privati, domestici e stranieri, e le esportazioni,
comprimendo la domanda interna.
Questo obiettivo è stato
perseguito attraverso una politica selvaggia di riduzione
dei salari e precarizzazione del lavoro, nel tentativo di
attrarre gli investimenti dei gruppi finanziari e delle multinazionali, indotti
dall’apertura di mercati, un
tempo occupati dall’intervento pubblico, e dai maggiori margini di profitto
assicurati dall’abbassamento del costo della manodopera e dalla progressiva
flessibilità raggiunta dal mercato del lavoro.
Questi interventi hanno
portato il PIL di alcuni paesi a crescere nuovamente e ciò è stato visto con
favore dai promotori delle ricette neoliberiste eurocentriche; tuttavia le
valutazioni ottimistiche spesso non tengono conto della caduta precedente del
PIL determinata dalle politiche austeritarie e, soprattutto, del fatto che a
seguito della riduzione dell’intervento dello Stato nell’economia, la ricchezza prodotta coi nuovi assetti si concentra nelle mani di
pochi e non viene redistribuita in salari e pensioni.
Vediamo quali ripercussioni
specifiche hanno avuto questi interventi sulla sanità pubblica.
Diciamo che dinamiche
analoghe hanno caratterizzato tutti gli stati membri, con particolare intensità
laddove i sistemi di welfare erano maggiormente sviluppati.
In Spagna il modello Alzira, ha determinato la progressiva devoluzione alla
gestione privata degli ospedali e delle strutture sanitarie, in Francia sono stati introdotti modelli di
aziendalizzazione della sanità pubblica che hanno portato alla concentrazione
dell’offerta ospedaliera in pochi grandi centri e un’attenzione sempre più
spinta a parametri di tipo contabilistico che hanno condizionato l’intervento
medico, tanto da portare alla recente protesta del personale medico, leso nel
potere discrezionale di decidere e indirizzare i percorsi di cura.
In Grecia, poi, gli
interventi della troika hanno di fatto azzerato la sanità pubblica.
In Italia, successivi interventi di finanza pubblica
hanno ridimenzionato il settore sanitario tanto da portare nel corso di circa
10 anni il finanziamento nazionale dal 7,1% del PIL all’attuale 6,4%.
Con la legge finanziaria
2010 (l. 191/2009, art. 2, co. 71) è stato introdotto il blocco parziale alle assunzioni, che imponeva al
monte salari il limite massimo del livello raggiunto nel 2004 diminuito del
1,4%.
Il D.L. 78/2010 ha
introdotto tagli al salario accessorio
del personale e blocchi alle progressioni di carriera, con tagli ai fondi
destinati alla contrattazione integrativa che non sono stati più recuperati.
Il D.L. 95/2012, sulla
spending review, ha fissato a 3,7 per mille abitanti il
numero massimo di posti letto delle strutture ospedaliere o
assimilate presenti sul territorio, di cui lo 0,7 da destinare alla lungo
degenza.
Nel parossistico
tentativo di contenere la spesa, attualmente tutti i territori registrano un numero assai più basso rispetto a
tale standard e stimato intorno al 3,4 per mille a livello
nazionale, con minimi che si attestano intorno 2,4.
Il D.L. 158/2012, noto
come decreto Balduzzi dal nome del suo
estensore, ha aperto la via alla deospedalizzazione,
delineando un modello basato sulle aggregazioni funzionali di medici di medicina
generale sul territorio e introducendo i presupposti per la creazione
delle Case della Salute,
nell’intento di spostare risorse dall’ospedale al territorio.
Sempre il decreto Balduzzi ha operato aperture al partenariato
pubblico-privato nell’edilizia ospedaliera, dando l’avvio ad una serie di
operazioni di dubbia convenienza per il pubblico che hanno portato alla nascita
di nuovi ospedali, tutti rigorosamente caratterizzati dalla drastica
riduzione di posti letto rispetto alle realtà preesistenti.
Tutto ciò si è abbattuto sul sistema sanitario restituendoci una
fotografia molto diversa da quella di 10 o 15 anni fa. Il tessuto delle
professionalità si è estremamente depauperato.
Al blocco delle assunzioni si è fatto fronte con
esternalizzazione di servizi e progressiva sostituzione del personale stabile,
con operatori assunti con contratti a termine o altre forme di contratto
atipico. Il ricorso all’attività aggiuntiva incentivata di medici e infermieri,
consistente nel richiamo straordinario in servizio oltre ai turni programmati e
alle reperibilità, è letteralmente esplosa negli ultimi mesi, rendendo
estremamente complicato il rispetto della normativa europea sui riposi minimi
di legge.
Le prestazioni che la sanità
pubblica è oggi in grado di offrire sono appena sufficienti all’ordinaria
gestione delle esigenze del paese.
Ecco perché l’emergenza corona
virus ci coglie del tutto impreparati e costretti a drastiche misure di
prevenzione, che forse in altri tempi avrebbero potuto essere mitigate.
Secondo uno studio del
centro di ricerche indipendente Gimbe, fra il 2010 e il 2019 c’è stato un
progressivo definanziamento della sanità pubblica.
Inoltre, la politica ha
favorito la nascita di assicurazioni e fondi sanitari per compensare il
ridimensionamento della spesa in sanità andando a vantaggio solo di alcune
categorie di persone e mettendo a rischio l’universalità del servizio.
Lo smembramento della
sanità pubblica sono frutto delle scellerate scelte politiche dell’europa
scelte liberiste che vogliono che tutto sia merce e su tutto ci deve essere un
profitto.
Scelte condivise oggi da
tutte le forze politiche e dal governo, tutti sono responsabili.
La Campania paga il conto di anni di tagli alla sanità
Durante il
coronavirus abbiamo assistito a Malati rispediti a casa. Dottori senza
protezione. Attese infinite per i tamponi. Negli ultimi sei anni la Regione ha
perso 1.500 medici, 2.300 infermieri e 1.000 posti letto.
lo 'sceriffo' De Luca uno dei maggiori responsabili
del declino della sanità in campania
Il presidente della Regione Campania,
Vincenzo De Luca, è ormai rappresentato in tutte le forme possibili, tramite
meme e video divertenti che imperversano in rete, mentre con i suoi modi da
sceriffo ‘invita’ la cittadinanza a rispettare il decreto del governo che
invita le persone a restare in casa per arginare i contagi da
coronavirus.
Una strategia comunicativa aggressiva.
Ma che sembra funzionare bene. Applausi a scena aperta per lo ‘sceriffo’
salernitano’. Il popolo impaurito dal Covid-19 invoca la massima repressione
contro chi si ostina a non rispettare quanto decretato dal governo.
Fermo restando la giustezza degli inviti
anche forti a restare in casa per evitare che l’infezione si diffonda a macchia
d’olio nell’intera penisola vien da chiedersi come mai De Luca abbia scelto un
approccio tanto aggressivo e puntando solamente sulla colpevolizzazione dei
cittadini.
Forse è cosciente che i tagli drammatici
operati nei confronti del sistema sanitario campano lo rendono inadeguato ad
affrontare un eventuale diffusione di massa del nuovo coronavirus Covid-19?
Il sistema sanitario della Regione
Campania ha subito tagli, soprattutto del personale medico e infermieristico,
draconiani.
A tal proposito il portale Truenumbers.it scrive: «La regione Campania è stata quella che ha
ridotto di più la spesa per il personale nella sanità dal 2009. Se alcune
regioni hanno risanato i conti in deficit tagliando la spesa generale, la
Campania si è concentrata in gran parte su medici e infermieri».
«La Campania è - prosegue l’analisi - la
regione che più di tutte ha tagliato le risorse per pagare il personale
dipendente, in gran parte medici e infermieri naturalmente. Dal 2009 al 2018 il
calo è stato di ben il 19,7%. Si è scesi da 3 miliardi e 265 milioni a 2
miliardi e 590 milioni del 2017, risaliti poi di circa 31 milioni nel 2018,
primo anno con un piccolo incremento. Mediamente in Italia il calo è stato del
3,9%, e in diverse regioni c’è stato invece un aumento».
Con il risultato che in Campania si è
verificato un calo ragguardevole del numero dei medici in servizio.
Insomma, forse alla luce di questi dati
inconfutabili risulta più chiara la strategia aggressiva del presidente De
Luca. Colpevolizzare i cittadini con fare da sceriffo, con toni sinceramente
fuori luogo vista la drammaticità del momento, per nascondere lo scempio
effettuato negli anni della sanità campana.
Ma come al solito i
cittadini hanno mente corta e dimenticano presto, ieri De Luca era finito
politicamente, oggi è il vincitore,
il popolo si accinge o riconfermarlo ma non solo
lui, oggi purtroppo tutte le forze politiche sono responsabili di queste
scellerate politiche imposte dall’europa, e noi da sudditi ci limitiamo a
scegliere chi preferiamo che ci continui a massacrare...
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