Gli Stati Uniti e buona parte dell’occidente capitalistico sono usciti sorprendentemente sconfitti dalla grande stagione della globalizzazione dei mercati. L’avevano propugnata, eppure sono stati sconfitti.
Il capitalismo americano, e gran parte del capitalismo occidentale, si sono ritrovati negli anni con un crescente problema di competitività internazionale, con costi di produzione relativamente alti rispetto alla concorrenza estera.
Questo ha portato gli Stati Uniti e la Gran Bretagna ad accumulare un deficit commerciale enorme, acquistando beni e servizi e pagando in moneta sopravvalutata, sostenuta dal privilegio del dollaro di essere la moneta di scambio e di riserva finora quasi unica. Invece altri paesi – come Germania, Giappone e Cina sono stati per anni esportatori netti, cioè hanno venduto più merci e hanno quindi accumulato più moneta di tutti e adesso hanno sempre più voglia di usarla: non solo per erogare prestiti all’occidente indebitato, ma anche e soprattutto per acquisire capitale occidentale.
I capitali cinesi, asiatici, arabi e anche russi, coltivano cioè da tempo il desiderio di usare la moneta accumulata per comprare azioni di aziende americane, britanniche, francesi, e così via. Magari persino i pacchetti di controllo di quelle aziende, per assorbirle e dominarle. Il mercato globale del lavoro ha spinto le imprese a spostare i propri centri produttivi là dove il costo del lavoro è più basso. Questo si è potuto realizzare anche a causa del differente potere d’acquisto delle rispettive monete, in cui il costo della vita è molto più basso. Pertanto la globalizzazione della competitività sui mercati è una delle cause delle gare al ribasso per quanto riguarda lo stato sociale, diritti e salari dei lavoratori nei paesi a moneta forte. Con l’avvento del multipolarismo e per arrestare la caduta del predominio del dollaro, gli Stati Uniti hanno fatto leva in quei paesi dove esercitano la propria egemonia politica, imponendo loro di assorbire il debito americano e di spostare a loro carico i costi della reindustrializzazione statunitense, facendo aumentare in quei paesi il costo dell’energia (costringendoli a realizzare sanzioni alla Russia che si ritorcono contro) e facendo imporre ai propri burattini politici (come la Commissione Europea) regole industriali folli (come la transizione energetica). Assistiamo pertanto al forte ridimensionamento dell’industria manifatturiera tedesca e giapponese e di conseguenza di tutte le economie ad essi connesse, come quella italiana. D’altro canto, le nazioni che non subiscono l’egemonia politica degli USA, come la Cina e i paesi dei BRICS che si stanno sganciando dal predominio del dollaro, stanno approfittando del surplus accumulato, ritorcendo contro l’occidente gli strumenti che essi hanno usato finora. La globalizzazione ha fatto accumulare enormi profitti ai capitalisti occidentali e ha schiacciato le condizioni materiali dei lavoratori. Ha sottratto potere economico e finanziario allo stato nazionale mettendone in crisi l’autonomia e l’equilibrio interno tra le diverse classi sociali. La minaccia alla capacità dei governi di esercitare la loro sovranità interna si trasforma in una minaccia alla democrazia stessa che si manifesta con la diminuzione di fiducia nelle istituzioni democratiche. Ai nostri giorni il tentativo degli Stati Uniti di imporre al resto del mondo il proprio ordine unipolare rende particolarmente acuta la questione nazionale, che è la questione della difesa della sovranità nazionale e dell’indipendenza del proprio paese e degli altri paesi in lotta contro l’imperialismo. La questione nazionale è la questione cruciale della nostra epoca. Se uno Stato non è libero di scegliere il proprio destino e diviene semplicemente l’oggetto del gioco altrui significa che il popolo di quello Stato non potrà mai decidere davvero nulla di rilevante in merito alla conduzione dei suoi affari, e non solo in ambito economico, perché vi sarà sempre un’autorità esterna a dettargli l’agenda, le guerre in atto ne sono la prova. La sovranità nazionale, l’indipendenza sostanziale della propria patria, è condizione necessaria anche se non sufficiente dello sviluppo della democrazia e del protagonismo delle classi popolari, che sono la nazione. Ne è stato ben cosciente il movimento comunista internazionale nel corso del Novecento, come si evince dall’impegno profuso per sostenere le lotte di liberazione dei popoli contro l’imperialismo, “nulla è più prezioso dell’indipendenza e della libertà”. E come sostenne Mao, durante la guerra di liberazione dall’occupante giapponese, “in ultima analisi la lotta nazionale è una questione di classe”. Ecco perché questa è una battaglia per la difesa dei diritti sociali, per lo sviluppo economico del paese ed è contemporaneamente una battaglia antimperialista, una battaglia per la difesa della sovranità nazionale è una lotta per la difesa della classe operaia e dell’industria Italiana.
Tommaso Pirozzi
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