MARIO MONTI E LA MASSONERIA: UNA RELAZIONE PERICOLOSA PER L’ITALIA.

Nell’elenco dei 43 massoni italiani che abbiamo pubblicato qualche mese fa (elenco consultabile qui)  il nome di Mario Monti c’era.
Il nostro futuro premier, così ben voluto da tutti, é un massone. Ha preso parte alle riunioni segrete del gruppo Bilderberg numerose volte, fa parte della Commissione Trilaterale (la più potente loggia massonica del mondo) ed é membro della Golden Sachs, la più potente banca d’affari dell’intero pianeta, la grande burattinaia dell’intero mercato finanziario internazionale.
 La massoneria gestisce l’ intera speculazione finanziaria mondiale. La stessa speculazione che ha preso di mira l’Italia e che ci sta facendo sprofondare sempre di più nella recessione.
Mario Monti: Salvatore della Patria o massone doppiogiochista? Avrà più a cuore il suo Paese o la sua loggia massonica? Due interessi pericolosamente contrastanti che confluiscono inquietantemente nella figura del nostro nuovo Capo del Governo.
Il Capo del Governo uscente, l’unico imputato per la crisi economica, in realtà non é il principale artefice della recessione italiana. Lui e le sue fastidiose leggi ad personam, le sue crociate contro quei comunisti dei magistrati e la sua eccessiva fiducia nell’incompetenza reiterata di Tremonti hanno sicuramente contribuito al disastro economico italiano, ma non possono essere le uniche ragioni. 



La vera ragione della crisi é la massoneria mondiale. Una cricca di potenti, tanto ricchi da poter creare a piacimento crisi e risanamenti nei conti di una intera nazione. Sono loro che smuovono immense quantità di capitali, che mettono in moto ogni singolo meccanismo speculativo sul mercato finanziario. La morsa che hanno stretto su Gecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, ora sta soggiogando l’Italia.
Il fatto che uno di questi massoni si trovi ora alla guida dell’Italia é una situazione davvero molto pericolosa, perchè a loro interessa il crack finanziario del nostro Paese e ora vedremo il perchè.
ANALIZZIAMO IL PROBLEMA:
In questi giorni, ogni volta che il governo prendeva una spallata e iniziava a vacillare pericolosamente, il mercato dava fiducia all’Italia e lo Spread si assestava. Di contro, ad ogni indizio che portava alla stabilità del governo, specie in concomitanza con le dichiarazioni pubbliche di resistenza del Cavaliere, lo Spread volava. É come se il mercato credesse nell’Italia ma non nel suo governo.
É proprio questa la situazione: la massoneria mondiale non gradiva più Silvio Berlusconi. L’ex premier, che ha goduto per tutti gli anni dei suoi mandati dell’appoggio delle logge, era diventato scomodo. Ero uno ostacolo per la “conquista” dell’Italia.
Ecco le tre motivazioni per le quali la massoneria voleva silurare Berlusconi e vuole il tracollo totale della finanza italiana:
PUNTO PRIMO: La politica energetica italiana da’ molto fastidio ai confratelli anglo-ebraici-americani. Il cavaliere, per quanto criticabile sul tutti i fronti, è però riuscito a instaurare rapporti commerciali energetici con Libia e Russia. Ucciso Gheddafi è rimasta soltanto la Russia di Putin, l’E.N.I. é in difficoltà, nessun accordo con il nuovo governo libico é stato ancora intavolato. Attualmente, il 30% dell’E.N.I. è in mano pubblica. Un altro 20% lo possiedono gli investitori anglo-ebraici-statunitensi che tirano le fila del mercato globale e che vogliono mettere le loro avide mani, grazie alla crisi economica creata ad arte, sulle decine di miliardi che una maggiore proprietà dell’E.N.I significhebbe. Se l’Italia affonda, deve svendere le sue azioni. Se le svende, i grandi burattinai ci guadagnano.
PUNTO SECONDO: Con quasi 2500 tonnellate di oro, l’Italia possiede la terza maggior riserva di oro al mondo, dopo Stati Uniti e Germania. Il Fort Knox (precisamente 2.451,80 tonnellate) fa gola a molti. Mettere in ginocchio un paese con le tasche così piene d’oro é il sogno di ogni potente speculatore.
PUNTO TERZO: L’Italia é un paese con un importante patrimonio pubblico. Se l’Italia va male lo deve per forza svendere. I capitali stranieri sono voraci in termine di patrimoni pubblici. Ogni volta che un Paese va male, o é scosso da un accadimento che lo ha fortemente indebolito, gli avvoltoi sono lì, sempre pronti per nutrirsi di dsigrazie (fonte: disinformazione.it)
FOCUS SUL PUNTO TERZO: In Italia una cosa simile é già accaduta nel 1992 e allora vinsero i massoni: a poche settimane dalla strage di Capaci (il 23 maggio 1992), esattamente il 2 giugno 1992 sul Britannia, il panfilo della Regina Elisabetta II, si organizzò un vero e proprio complotto ai danni dell’Italia.
George Soros, Giulio Tremonti, il Direttore generale del Tesoro Mario Draghi, Il Presidente dell’IRI Romano Prodi, il Presidente dell’ENEL Franco Bernabé, il Governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi e il Ministro Beniamino Andreatta, svendettero il patrimonio pubblico ai capitali stranieri come Goldman Sachs, Barings, Warburg e Morgan Stanley.
I nostri B.O.T. Vennero immediatamente declassati dalle agenzie di rating mondiali (indovinate un pò, tra l’altro, nelle mani di chi sono) e lo speculatore ungaro-ebraico George Soros, cercò di impossessarsi di 10.000 miliardi di lire della Banca d’Italia, speculando sterlina contro lira.
Carlo Azeglio Ciampi, per “impedire”, diciamo così, tale speculazione, bruciò le riserve in valuta straniera: 48 miliardi di dollari. Ciampi, per questi suoi servigi sarà premiato con la Presidenza della Repubblica.
Su George Soros indagarono le procure di Roma e Napoli, ma lo strapotere dei suoi amici massoni vinsero ancora una volta e tutte le accuse caddero nel vuoto.
A seguito di questo attacco mirato alla lira, e della sua immediata svalutazione del 30% partì la più grande privatizzazione di Stato a prezzi stracciati (ENEL, ENI, Telecom, ecc.), per opera dei governi Amato (1992-1993) e Prodi (1996-1998). In quel caso la Massoneria si accontentò di una speculazione “mirata”, un colpo all’Italia che sarebbe stato molto lucroso ma non letale per il Bel Paese. Ciò che mi preoccupa é che i loro ingordi stomaci rumina soldi questa volta vogliano mangiare il più possibile, fino a spolpare tutta la carne, facendo affiorare dal sangue le ossa del povero scheletro italico.
SCOMDISSIME CONSIDERAZIONI FINALI:
Il buon Mario Monti é completamente invischiato con questa gente, ne fa parte, é uno di loro. La sua presenza su panfili reali e negli hotel di super lusso – in cui avvengono le riunioni del Gruppo Bildenberg (nel 2004 anche in Italia, a Stresa, sul Lago Maggiore) – sono documentate e comprovate. Questi avidi porci bramosi di denaro che perseguono biecamente il loro benessere, il loro arricchirsi, il loro lucrare sulla povera gente.
Proprio quei porci che definiscono P.I.I.G.S. (anagramma della parola “porci” in inglese) i cinque paesi più in crisi dell’Unione Europea (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna) anche  se in realtà i veri artefici di questa situazione sono loro: Le loro macchinazioni, il loro prender di mira a turno un nuovo Paese dell’Unione, serve solo alle loro squallide speculazioni. I cosiddetti “Pigs”, i maiali, sono semplice carne da macello, da triturare per generare dei guadagni.
Tutto ciò é possibile grazie alla moneta unica d’Europa. La nascita dell’Euro é stata la più grande speculazione massonica della storia. I maiali sono così stati messi in un grande recinto, dal quale é meglio individuabile il più vulnerabile, colui che offrirà meno resistenza alla propria macellazione (guarda caso, gli inglesi, gli europei più potenti nelle logge massoniche, non fanno parte della moneta unica. Il porcello inglese ingrassa fuori dal recinto).
Conosciuti tutti questi retroscena, sei ancora convinto che Mario Monti farà soltanto il bene dell’Italia? io ora ho tanta paura che voglia compiacere quei maiali dei suoi amici.

fonte  Il Corsivo Quotidiano

In Italia è sparita la sinistra


Oggi siamo in un momento di estrema gravità, forse il passaggio più drammatico dal 1945 in poi.
Sermoni, slanci poetici, comizi da avvocati paglietta, sparate da sindacalista lasciano il tempo che trovano. Occorrono proposte precise e radicali che possono venire solo da analisi rigorose ed attente.
 E questo presuppone un certo grado di conoscenze del terreno di scontro, a cominciare dalla crisi finanziaria.
Diciamocelo:  fra i militanti di sinistra serpeggia una certa idea per cui la finanza è una cosa che riguarda “lorsignori”, a noi basta fare muro in difesa dei nostri diritti, senza stare ad addentrarci in  un mondo ostile ed astruso. Lasciamo che se la sbroglino loro.
Ebbene questo è il modo migliore per perdere, anche (e soprattutto) sul terreno dei nostri diritti. Non si tratta di parteggiare per uno schieramento finanziario conto un altro, si tratta di assumere il “partito della finanza” come nostro nemico e batterlo.
Ma questo non si può fare  se non si ha chiara la situazione e non si ha una linea politica propria da contrapporre a quella degli altri. Però, siccome non possiamo pretendere che la gente si iscriva a tamburo battente ad un corso di economia finanziaria per orientarsi, spetta alle organizzazioni politiche e sindacali tradurre in opzioni politicamente comprensibili  i termini di un dibattito specialistico.
Ma se anche i dirigenti politici e sindacali non capiscono un accidenti di queste cose, come pretendiamo che possano farlo?

Da anni assistiamo a dibattiti televisivi e radiofonici, dove spesso ci sono dirigenti politici e sindacali anche di livello nazionale. E' evidente che, nella maggior parte dei casi, il politico o il sindacalista di turno si guardano con un’aria di pesce lesso che tradisce la più totale ignoranza dell’Abc dell’economia, della finanza e, per la verità, anche della politica internazionale.
 Come si fa a discutere in queste condizioni? Capisco che la finanza non sia una materia allettante, ma non è accettabile che un dirigente politico o sindacale ne sia a digiuno.

Ma cosa propongono i leader di sx:

Migliore vuole “entrare nel recinto” per condizionare il centro sinistra.
Ma che significa “spostare a sinistra il centro sinistra”, questa tattica è  in funzione di quale strategia?

Mi spiego meglio:

Vendola i soldi per sanare i buchi di cassa delle banche li darebbe o no? Ed a quali condizioni?E se è del parere di non darli, come pensa di far fronte al conseguente “domino bancario” ed ai problemi dei risparmiatori che rischierebbero di perdere tutto? Dobbiamo mantenere l’Euro o no? E se dobbiamo uscirne, come fare?E del debito pubblico accumulato che facciamo? Cosa pensa dei derivati? Oltre che la solita panacea della patrimoniale non ho sentito.

Bertinotti non si è speso su questo terreno, limitandosi ad auspicare una rivolta sociale contro le politiche tardo-liberiste. Va bene, ma quali debbono essere le rivendicazioni concrete e gli obiettivi da raggiungere di questi movimenti? Dobbiamo scioperare perchè le banche centrali immettano liquidità o, al contrario, perchè non lo facciano? O la cosa ci è indifferente?

Parlare della crisi significa parlare di queste cose, avanzare proposte su questi terreni, il resto è solo chiacchiericcio politicante.

Vendola vuole entrare nel recinto, Bertinotti vuole starne fuori per romperlo e Ferrero ha una posizione intermedia; cioè vuole stare seduto sulla staccionata. 
Lui che pensa dei derivati? Come dobbiamo far pagare le tasse sulle rendite finanziarie? 

 Questo pone un problema che da troppo tempo eludiamo: quello della preparazione del nostro ceto politico. 
Sino a buona parte degli anni ottanta, era un punto di onore sia per i dirigenti comunisti o socialisti e di parte dell’estrema sinistra, dimostrare una migliore capacità di analisi fondata sulla maggior quantità possibile di dati. mentre ora "il vuoto assoluto"

Ma chi li a eletti dirigenti?

Qui veniamo ad un altro punto i "congressi" questi dirigenti sono stati eletti dagli iscritti e, sino a quando sono confermati, hanno piena legittimazione. 

Sono stati eletti dagli iscritti, siamo sicuri?

Se ci riferiamo  a quel simulacro di democrazia che sono i congressi, abbiamo ragione, ma sappiamo come funziona la macchinetta?

Chiunque abbia un po’ di anni di militanza alle spalle e l’abbia fatta ad occhi aperti sa:


·       che fra un congresso e l’altro, il gruppo dirigente gode di visibilità quasi in esclusiva, perchè a nessun militante che non ne faccia parte è dato far conoscere proposte ed idee se non attraverso canali collaterali e secondari

·       che, sempre fra un congresso e l’altro, il gruppo dirigente dispone delle riscorse del partito che distribuisce selettivamente a proprio piacimento (contributi alle federazioni, trattamento dei funzionari, disponibilità ad offrire appoggi istituzionali, spazi sulla stampa di partito ecc.) per cui si guadagna in questo modo l’appoggio dei beneficiati, soprattutto fra i funzionari.
·       che il gruppo dirigente in carica è quello che sceglie anche i parlamentari da eleggere, il direttore del giornale del partito, talvolta i consiglieri degli enti locali maggiori, assicurandosi così il controllo di altre leve utilissime in vista del congresso. Nel caso specifico di Rifondazione, non si usa neppure far  finta di consultare la base su chi debbano essere i parlamentari e tutto è fatto nel ristrettissimo cerchio della Direzione Nazionale (neppure del Comitato Politico Nazionale)

·       il gruppo dirigente ha il monopolio delle informazioni, dallo stato reale del bilancio e del tesseramento alla composizione dei gruppi dirigenti di federazione ecc.

·       nei casi di maggiori turbolenze di base è sempre possibile ricorrere alle sanzioni disciplinari

·       quando poi arriva il congresso esso si svolge su mozioni predeterminate dal gruppo dirigente uscente che ripropone sè stesso, come è esposto nella legge delle elites politiche che si riproducono per cooptazioni.

E per decenza non tocchiamo il tasto dei congressi “irregolari” e dei tesseramenti gonfiati, problema che mi pare affligga anche Rifondazione: sbaglio o negli anni di congresso il tesseramento di Rifondazione è regolarmente superiore del 30-40% rispetto alla media annuale? E’ un caso?
Possiamo parlate di democrazia e di dirigenti eletti dagli iscritti? Ma dove vivete, sulla luna? 

Le divisioni potrebbero essere frutto di calcoli personali o di linee politiche diverse. 
A parte il fatto che tante divergenze politiche (che non siano piccoli calcoli di bottega) non ne vedo, il punto è un altro: questo richiederebbe una credibilità personale di chi ha diretto Rifondazione in questi anni, ma come si fa a stimare questo ceto politico? 
Nel 2008, Rifondazione era un partito che si aggirava fra il 6 ed il 7% e, con i comunisti italiani ed i Verdi partiva da una base dell’11% circa cui si sarebbero dovuti aggiungere i voti della sinistra Ds. Alla prova del voto, la Sinistra Arcobaleno otteneva il 3,7% perdendo quasi il 70% dei suoi elettori. Un primato mai toccato prima da nessun altro, che determinava l’esclusione dal Parlamento di tutta la lista.
Di fronte ad una Caporetto del genere, l’intero gruppo dirigente avrebbe dovuto dimettersi e ritirarsi a vita privata, chiedendo scusa di esistere.  Di fatto, l’unico a ritirarsi è stato Fausto Bertinotti, migliore dei suoi dirigenti che, come se nulla fosse, si sono riproposti a dirigere il partito.

Ne seguì un congresso indecente, senza nessuno sforzo per capire le ragioni della sconfitta ma con una ignobile rissa per la conquista della poltrona di segretario. Vinse Ferrero, come si sa.
“l’unità del partito non si tocca… i militanti con capirebbero”, ciò che si disse il giorno dopo il congresso, poi però ci fu la scissione nel più rovinoso dei modi. 

Il risultato alle elezioni fu:
La Fds (Rifondazione, con il Pdc’I) ottenne un effimero 3,4% alle europee, il che comunque ne sanciva l’esclusione dal Parlamento europeo. 
Nelle regionali successive (2010) le cose andavano peggio e la Fds perdeva voti quasi in tutte le regioni (anche rispetto all’anno prima), conquistando meno di 10 consiglieri regionali in tutta Italia.

Tendenza ribadita dalle amministrative di questo anno: Rifondazione otteneva qualche cosa in più solo a Milano e Napoli (dove si trovava nella coalizione vincente e grazie all’errore di Sel napoletana di appoggiare Morcone  al posto di De Magistris) ma i risultati di Bologna e Torino erano catastrofici, collocandosi molto al di sotto del 2%.

A questo punto, il gruppo dirigente uscito dal congresso di Chianciano avrebbe dovuto fare quel passo indietro che non aveva fatto tre anni prima e riconoscere la propria incapacità politica a raggiungere gli obbiettivi che il congresso gli aveva affidati.

Invece, Ferrero, Grassi e Rocchi (i principali tre possessori di pacchetti di tessere) fanno una mozione unica per fare un finto congresso e assicurarsi la rielezione in modo da arrivare in sella quando si faranno le liste per le politiche.

Tutto ciò premesso, come si fa a non pensare che l’unico fine di questo gruppo (si fa per dire) dirigente è solo quello di assicurarsi una decorosa vecchiaia?

Il guaio, è che uno dei vizi peggiori della tradizione comunista è il culto del gruppo dirigente che non è mai chiamato a rendere conto del suo operato ed è difeso qualsiasi bestialità faccia.

Fiat È l’ora della verità per il capitalismo E per la classe operaia

Il capitalismo, vero, è quello di Marchionne, e lo sarà sempre ed ovunque
La previsione marxista di un capitalismo destinato a cadere in crisi sempre più gravi e che si alimenta solo con la vita dei suoi schiavi salariati, è ogni giorno più confermata.
L’attacco della Fiat è quello che si verifica in tutti i paesi e in tutte le categorie e non è, come sostiene il sindacalismo di regime, e anche la sua sinistra, la Fiom, “scelta” di una particolare “cultura aziendale” e di un amministratore delegato “amerikano” e liberista.
L’intero capitalismo è afflitto da una generale crisi di sovraproduzione. Nell’auto si calcola che in Europa e in USA la sovracapacità produttiva oggi sia fra il 30 e il 40%. Questo processo, non voluto da nessuno ma risultato naturale e spontaneo delle leggi che regolano la produzione capitalistica, ha condotto ad una elevata concentrazione – altra classica previsione marxista – col passaggio a poche aziende sovranazionali in competizione per la vita o per la morte. Tutte le case costruttrici sono quindi costrette a sfruttare in modo parossistico i propri lavoratori; quelle che non l’hanno già fatto a fondo presto lo faranno.
L’accordo di Mirafiori dimostra che non può esistere un capitalismo “dal volto umano”. La Fiat, come la maggior parte delle aziende, per cercare di restare in vita deve esasperare lo sfruttamento dei suoi operai. Lo fa già da anni, e con l’avvallo di tutti i sindacati, Fim, Uilm e anche Fiom. Finché oggi i ritmi di lavoro divengono tali da non poter essere accettati dai lavoratori, nemmeno col lavorio di convincimento dei sindacati confederali, ma solo imposti.
Allora crolla la finzione della democrazia in fabbrica. La Fiat non può più permettersi che i carichi di lavoro più pesanti siano anche solo in parte vanificati dal ricorso dei lavoratori a quei mezzi con cui essi – nella loro attuale incapacità di una vera lotta frontale – riuscivano finora a sfuggire un poco a quell’inferno, come le due ore di sciopero a fine turno o il ricorso alla malattia.
Se non c’è più spazio per fingere la conciliazione degli interessi, la concertazione, non ci sarà nemmeno per quel sindacato che su quel principio di “relazioni industriali” si è costruito. Restano in piedi solo due tipi di sindacato: o quello dichiaratamente a servizio dell’azienda, e da questa “riconosciuto”, o il sindacato di classe, per costituzione nemico del padrone, fondato solo sulla sua forza di organizzazione e di mobilitazione, e non riconosciuto da nessuno, se non dalla classe lavoratrice.
Gli accordi di Pomigliano e di Torino segnano una tappa in direzione di questo processo, non il suo compimento.
La Fiom per molti decenni è stata preziosa per la Fiat, e buona parte del padronato la considera ancora tale. I borghesi sanno che privare i lavoratori di un inquadramento sindacale che predica la conciliazione degli interessi, spingendoli verso la costruzione di un vero e combattivo sindacato di classe costituisce un passo pericoloso. La ragione glielo mostra prematuro, non ancora necessario. Ma, di questi tempi di catastrofe, la ragione non basta e la lotta di classe, primo motore del divenire sociale, nelle sue forme determinate s’accende da sola. Quando la barca del capitalismo affonda le apparenze debbono passare in secondo piano, si sollevano i veli ipocriti: il Capitale tutto e tutti pretende trascinare con sé nell’abisso.
La Fiat ha dovuto mettere Confindustria e sindacati confederali davanti al fatto compiuto. La situazione è troppo grave per trastullarsi con i tempi lunghi delle “trattative”: occorre ubbidienza e disciplina, da tempo di guerra.
Staremo a vedere se il futuro svolgimento della crisi generale consentirà che, se la Fiat ha fatto tre passi avanti, Confindustria e confederali ne facciano almeno uno o due, varando un nuovo accordo sulla rappresentanza e la “democrazia sindacale”; vedremo se la Fiat potrà rientrare nelle nuove regole, e se la Fiom riavrà i “diritti” in Fiat.
Si capisce bene che, se nella vicenda Fiat la Fiom ha potuto assumere atteggiamenti da vittima, ciò non è dovuto a una sua natura di sindacato di lotta e di classe. La Fiom è stata “licenziata” dalla Fiat, la quale non è oggi in condizione di tollerare ed ospitare nei suoi stabilimenti nemmeno una finzione di sindacato. Il che sarebbe un fatto positivo, nel senso che indica la necessità di uno vero sindacato, che non chieda il permesso del padrone per organizzarsi, partendo da fuori della fabbrica, e dal padrone non si faccia raccogliere le quote.
La Fiom da sempre ha ricercato l’unità con Fim e Uilm e con queste ha “contrattato” e firmato tutti i peggioramenti con l’azienda.
Nel 1986 a Termoli con la firma della Fiom è stato introdotto per la prima volta il lavoro notturno obbligatorio per le donne, e poi negli altri stabilimenti.
Sempre Termoli fu prima a passare nel 1994 dai 15 ai 18 turni. Poiché quell’accordo, firmato anche dalla Fiom, fu respinto dai lavoratori nel referendum, nell’occasione furono mobilitati i massimi vertici dell’organizzazione per rimediare alla volontà “democraticamente” espressa dai lavoratori. Per due settimane nelle assemblee i delegati Fiom, insieme a quelli Fim e Uilm, terrorizzarono i lavoratori con la minaccia dello spostamento della produzione da Termoli a... Mirafiori. Queste le belle parole dell’allora segretario Fiom Claudio Sabattini: «Se deciderete per il no [come se col referendum gli operai non avessero già deciso!] noi rispetteremo la vostra decisione. Però non si dica che non vi abbiamo avvisato che così veniva distrutta una realtà industriale al Sud». Almeno oggi Marchionne non ha l’ipocrisia di dire che in caso di voto contrario rispetterebbe l’opinione espressa dai lavoratori! La sostanza del ricatto è la medesima.
Nel 2008 alle Meccaniche di Mirafiori avvenne lo stesso, con la Fiom che firmava l’accordo per il passaggio ai 18 turni e che fu respinto al referendum dai lavoratori, fra cui anche alcuni delegati Fiom.
Nella vicenda attuale, da Pomigliano a Mirafiori, Landini ha ripetutamente dichiarato la disponibilità della Fiom ad accettare l’aumento dei ritmi.
La Fiom, come la Fim e la Uilm, ha sempre accettato il principio secondo il quale i lavoratori debbono farsi carico della competitività dell’azienda. Mai si è posta sul piano di classe, esprimendo la necessità che gli operai si oppongano ad essere messi in concorrenza con quelli delle altre case automobilistiche in Europa e nel mondo, perché altrimenti non c’è limite ai peggioramenti, fino al consumarsi del fisico dell’operaio. Facendo suo invece il principio secondo il quale è interesse anche degli operai rendere l’azienda più competitiva la Fiom ha assecondato il capitale a dividere e sfruttare i lavoratori di tutti i Paesi. Ancora peggio, fra gli stessi stabilimenti in Italia, come nell’esempio di Termoli, o con la firma del patto territoriale per la Fiat di Melfi.
Tutta questa impostazione dell’azione sindacale, prettamente “borghese”, lega le sorti dei lavoratori a quelle dell’azienda invece che alla loro capacità di unirsi al di sopra delle imprese e delle categorie. Questa linea politica non è nemmeno oggi messa in dubbio dalla Fiom, ma rivendicata, anzi, esibita per dimostrare la pretestuosità delle “scelte” di Marchionne. La Fiom è vittima innanzitutto di se stessa e non vuole e non può, per quello che è e per tutto quanto ha fatto in passato, agire come un sindacato di lotta, scontrandosi frontalmente con la Fiat e con tutto il padronato.
Ma nemmeno può accettare la morte della “democrazia sindacale” firmando gli accordi di Pomigliano e Mirafiori, perché così perderebbe quel ruolo mediano che è nella sua natura – e di cui ancora può avvalersi in tutte le altre fabbriche – e finirebbe per non distinguersi affatto da Fim e Uilm.
Quanto occorso dall’accordo per Pomigliano, del 15 giugno, a quello per Mirafiori, del 23 dicembre, conferma che l’attacco sferrato dalla Fiat non ha affatto mutato l’atteggiamento della Fiom. Nonostante fin dall’accordo di Pomigliano fossero chiare le intenzioni della Fiat e del padronato, come la stessa Fiom ha subito denunciato, essa non ha proclamato immediatamente lo sciopero generale di tutta la categoria a difesa del contratto nazionale, e nemmeno quello di tutti i lavoratori Fiat. La vicenda di Pomigliano è rimasta una questione dei lavoratori di quello stabilimento, per di più in cassa integrazione, nonostante fosse evidente che riguardava non solo tutti gli operai Fiat e nemmeno i soli metalmeccanici ma tutta la classe lavoratrice.
A luglio la Fiom ha poi proclamato una giornata nazionale di mobilitazione dei metalmeccanici, non per uno sciopero ma per una manifestazione, da tenersi... tre mesi dopo, il 16 ottobre.
Quando il padronato ha compiuto il passo successivo, con la disdetta il 7 settembre del contratto metalmeccanico del 2008, dimostrando quanto denunciato fin da Pomigliano, e cioè l’intenzione di distruggere il contratto nazionale di categoria per sostituirlo con contratti aziendali, la Fiom ha risposto con 4 ore di sciopero divise per azienda.
Alla manifestazione del 16 ottobre a Roma Landini ha lanciato la richiesta alla Cgil di indire uno sciopero generale. Nell’attesa della proclamazione dello sciopero, che non c’è stata, la Fiom si è ben guardata dal cominciare intanto a indire lo sciopero generale della categoria.
Si è giunti così all’accordo per Mirafiori del 23 dicembre e la Fiom si è finalmente risolta a indire lo sciopero. Ma per il 28 gennaio, due settimane dopo il referendum sull’accordo, senza alcuna intenzione quindi di influire sul suo esito. Si tratta ancora di uno sciopero per esprimere la propria opinione contraria, non certo per respingere con la forza il nuovo pesante attacco.
La vittoria del “no” al referendum comporterebbe necessariamente una successiva mobilitazione dei metalmeccanici. Ma la Fiom, che non ha voluto né potuto mettere in campo una simile mobilitazione in questi sei mesi, non può né vuole farlo ora. Non vuole, perché è intimamente legata a una pratica di ricerca del compromesso col padronato che le garantisca tutti quei diritti sindacali sui quali vive la sua struttura e che non può compromettere con una vera lotta generale contro di esso. Non può perché tutta la sua azione sindacale passata, imperniata sulla ricerca della conciliazione degli interessi col padronato, non ha rafforzato ma demolito la capacità di lotta dei lavoratori.
D’altro canto la Fiom è stata emarginata solo in due stabilimenti Fiat. Può ancora contare sulla consapevolezza di buona parte del padronato che ben sa che “se c’è un sindacato che fa accordi è la Fiom”, per dirla con Landini.
La Fiom quindi non conta affatto di porsi sulla strada della ricostruzione della forza dei lavoratori per respingere gli attacchi odierni e futuri. E nemmeno per difendere se stessa. Fino all’ultimo cercherà una sponda fra le fazioni del padronato che le garantisca la prosecuzione della sua funzione conciliatoria, anche se verrà condotta in spazi sempre più angusti e puramente simbolici. Fino all’ultimo difenderà la “democrazia” e proprio per questo si rifiuterà di impostare la sua azione sull’unico piano reale, quello dei rapporti di forza. Questa condotta è fallimentare e suicida come, con una piccola anticipazione di più grandi episodi futuri, ha dimostrato la vicenda Fiat.
* * *
L’esito del referendum di Mirafiori è stata una prova d’orgoglio degli operai. In gran parte non hanno ceduto al ricatto dell’azienda. Una prova di coraggio che dimostra come la classe operaia non sarà mai definitivamente piegata e succube alle esigenze del capitalismo, come la descrivono e la sognano gli ideologi della borghesia.
Ma non è un referendum che decide la vittoria o la sconfitta in una battaglia sindacale. Questa è il risultato delle forze materiali messe in campo. Tanto quanto sono forze materiali quelle succhiate dall’azienda, dal Capitale, al fisico e alla mente degli operai, ogni giorno della loro vita. Altrettanta forza deve essere impiegata dai lavoratori per opporsi alla violenza del Capitale che vuole strappare loro ancora più fatica, sudore, logoramento fisico e mentale, per donarlo al profitto.
Questa forza non è un segno di penna su una carta, ma sono scioperi, assemblee, riunioni. Veri scioperi: non limitati all’azienda o al reparto ma estesi il più possibile a tutta la classe operaia. Vere assemblee: fuori dall’orario di lavoro, fuori dalla fabbrica, nelle sedi delle organizzazioni operaie, insieme ai lavoratori di tutte le aziende.
Tutto questo non c’è stato prima del referendum. Tutto questo se ci fosse stato avrebbe reso vuoto di significato l’esito di una conta dei voti che mostra la menzogna insita nel principio "una testa, un voto". Non solo a decidere per gli operai sono stati quadri e impiegati. Ma nel referendum gli operai in lotta mettono sullo stesso piano il loro voto con quello di chi nulla ha scarificato di sé per la battaglia, i crumiri, gli individualisti, i deboli di fronte al ricatto padronale.
Diverso il voto nelle assemblee operaie e sindacali. Vota chi c’è, chi fa la fatica di recarvisi. Si vota per alzata di mano, non nel segreto dell’urna, e si è responsabili di quel che si fa di fronte agli altri. Ma un’assemblea non è un organismo conciliatorio, riconosciuto cioè dall’azienda. È un organismo di lotta, di una sola parte, dei lavoratori, e non serve ad accettare o meno un accordo, serve a decidere se continuare la lotta contro di esso. Se gli operai arrivano a riporre solo in un referendum le sorti della battaglia hanno già perso.

L'Italia fallirà?


Tutti, politici una parte di economisti, sindacati, confindustria, governo e persino il caro ex compagno presidente, ritengono indispensabile effettuare le politiche lacrime e sangue imposte dalla BCE, altrimenti l'Italia fallira.
Ma nessuno ci spiega i motivi, dove andranno a finire i nostri sacrifici, e cosa accadrebbe se l'Italia scegliesse di non seguire queste ricette, ritornare uno stato sovrano  e a curare gli interessi del suo popolo.
Parlo di sovranita popolare visto che : Abbiamo fatto un governo a tamburo battente con una prassi costituzionalmente inventata imposto dalle banche, che non esiste, perché bisognava fare presto, dopodiché questo ci ha messo dieci giorni per fare i sottosegretari, che è una cosa che di solito si faceva prima del voto di fiducia, poi è andato a parlare della manovra con i capi di stato stranieri prima di presentarla al Parlamento italiano, che è una cosa ancora più divertente perché se poi il Parlamento gliela boccia abbiamo fatto una figura da cani a livello internazionale. Io sono felice del fatto che non ci sia più il cavalier Berlusconi a Palazzo Chigi, ma obiettivamente una tale prova di inefficienza da parte di Monti, nel quale pure non riponevo molte illusioni, francamente non me la aspettavo. "
La finanza e i lacchè ci dicono che l'alternativa è il fallimento, ma io non credo .
Certo, se  lasciamo il governo nelle mani della Banca Centrale Europea l'Italia va in default, perché questi non sono più capaci di evitarci il disastro, "visto che l'hanno creato". Ritengo invece che dovremmo impugnare la questione, un vero governo che risponda agli interessi del paese dovrebbe prendere l'aereo immediatamente, andare a Francoforte e a Bruxelles e dire: noi questo debito non lo pagheremo perché è un debito iniquo, ingiusto e illegale, vogliamo rinegoziare, volete rinegoziare con noi?
Siccome l'Italia è indispensabile per il mantenimento dell'Euro e dell'Europa, se volete rinegoziare rinegoziamo e rinegoziare vuole dire fare i conti reali con quello che è possibile pagare, con quello che è giusto pagare e con un programma di risanamento che tenga conto degli interessi del paese a partire dai giovani e dalle classi sociali più deboli in primo luogo.
Se l'Europa accetta la rinegoziazione, naturalmente bisogna rimettere in discussione il Trattato di Lisbona, il Trattato di Maastricht, cioè ridisegnare i confini dell'Europa, i confini istituzionali.
A queste condizioni l'Italia potrebbe avviare un programma di risanamento partecipandovi, altrimenti dovremmo uscire e andare per conto nostro per un certo periodo di tempo.
Non saremmo gli unici, la Gran Bretagna è fuori, la Svizzera è fuori, ci sono diversi Paesi che non hanno adottato l'Euro, non moriremmo certo se dovessimo uscire dalla moneta unica per un certo periodo e se agissimo secondo i nostri interessi."
 Uscire dall'Euro all'inizio potrebbe essere doloroso, ma visto gli enormi sacrifici fatti, siamo abituati, ma allo stesso tempo potremmo tornare a decidere in autonomia la nostra politica economica; potremmo tornare competitivi attraverso la svalutazione della nostra moneta e i Governi eletti democraticamente non verrebbero più ricattati dall'oligarchia finanziaria».
Ma è chiaro che alla  finanza  non converrebbe.
E ritorniamo al solito problema "la coperta è corta"