Fiat ha programmato la chiusura di altri stabilimenti in l’Italia. Per difendere occupazione e produzione è indispensabile che Fiat sia di proprietà pubblica.


Con l’avvento di Marchionne Fiat ha ridotto gli investimenti sull’auto ed ha abbandonato il segmento medio del mercato, quello più remunerativo in Europa, per concentrarsi sui segmenti bassi (quello della Panda e della Punto). Da qui il disastro sul marchio Alfa. Adesso che anche le altre case Europee, Volkswagen in testa, oltre che asiatiche, hanno deciso di investire massicciamente sui segmenti medio bassi Fiat, non facendo investimenti, non riesce a reggere il mercato. 


Con l’utilizzo dei fondi pubblici americani conseguenti all’accordo Chrysler Fiat sta spostando il baricentro fuori dall’Italia e dall’Europa. Utilizza il marchio Chrysler ed i suoi progetti per tentare di darsi una immagine sulla gamma media “taroccando”  il marchio Lancia. Sostituisce il marchio Alfa con il marchio Jeep sul mercato mondiale promettendo di costruire Jeep  a Mirafiori per venderle in America.

Nonostante il costo del lavoro in Italia sia basso, è evidente che Fiat ha programmato la chiusura di altri stabilimenti in l’Italia. Marchionne con la sua campagna sta realizzando una operazione vista altre decine di volte in aziende destinate alla chiusura. Non si investe, si spremono i lavoratori fin che ci sono residui margini di sfruttamento e poi si chiude.

Ciò trova conferma nella decisione di Marchionne di non lanciare nuovi modelli a differenza delle altre case che in momenti di crisi fanno il contrario.

Tutto ciò nonostante il costo del lavoro in Fiat sia più basso delle altre case automobilistiche. Se in Fiat Italia nel 2011 il costo del lavoro orario è di 26,31 €, alla Chrysler è pari a 37,7€, alla Toyota 42,3 €, alla Gm 43 € ; alla Ford 44,6 €.

La produzione in Italia va a picco: a fronte delle promesse di produrre 1.400.000 vetture, in Italia nel 2010 si sono prodotte 573.168 auto e nel 2011 solo 485.606 auto con un calo del 15,3%. Negli ultimi due anni, negli stabilimenti Fiat in Europa, si è passati da una produzione di 1.224 milioni di auto a 951.210. Il calo di 272.790 auto è avvenuto interamente in Italia.

Nessun piano annunciato (ben sette) è stato rispettato, nessuna promessa è stata mantenuta.
L’unico obiettivo perseguito è stato quello di peggiorare le regole contrattuali, di aumentare lo sfruttamento e diminuire i diritti individuali e sindacali, ma questo serve solo a sfruttare i lavoratori fin che ci sono residui margini di reddito, aggrava il declino industriale aumenta solo la paura del futuro e il disagio sociale.

Di fronte alle balle di Marchionne e al suo tentativo di rendere “schiavi” i lavoratori, e allo stesso tempo di svuotare le fabbriche in Italia (oltre il 50% dei lavoratori Fiat in Italia sono stabilmente il cigs) i governi sono stati complici assieme a coloro che hanno firmato gli accordi favorendo consapevolmente i disegni di Marchionne, i cui obiettivi sono solo ed esclusivamente la tutela dei guadagni della famiglia.

E’ necessario garantire le risorse necessarie per investire in Italia e consentire la sopravvivenza di un settore auto in Italia. Su questo il governo dei “tecnici” non può stare zitto e fare finta di nulla. Non serve avere assicurazioni di facciata che non saranno chiusi altri due stabilimenti. Occorre invece creare le condizioni perché ciò non avvenga.

E indispensabile rivendicare la proprietà pubblica della Fiat per la difesa dell’occupazione, del reddito, del lavoro, dell’ambiente e per gestire  la riconversione del settore verso un nuovo modello di sviluppo senza aspettare che ci si trovi a gestire dismissioni successive, ma creando in anticipo posti di lavoro in attività con una valenza sociale e non più di puro profitto.  

Il mito dell’ “Europa sociale”

Sono anni che il buonsenso, in seno al movimento sindacale europeo dominante e ai partiti socialdemocratici, consiste nell'affermare che stiamo facendo rotta verso un’ “Europa sociale”, un’Europa che darà lavoro a tutti e offrirà sicurezza ai lavoratori, ai disoccupati e a tutti quelli che, per una ragione o per l’altra, non potranno lavorare, ai giovani che entrano nella vita attiva, alle madri che hanno poca esperienza nel mondo del lavoro al di fuori della famiglia, e ai pensionati.
Fino a quando l’Europa dell’occidente capitalista ha dovuto competere col modello sociale ed economico dell’Unione Sovietica e dei suoi alleati per ottenere l’adesione dei lavoratori, la destra non trovava argomenti. Fondata nel 1973, la Confederazione europea dei sindacati (CES) rappresentò il risultato della presa di coscienza che il sindacato doveva coordinare le sue forze per giocare un ruolo su scala sopranazionale. La posizione della CES appare in modo evidente nel suo slogan “Più Europa, un’Europa sociale”. La sua principale attività consiste nel discutere con le istituzioni della UE e le associazioni padronali europee, nel Comitato economico e sociale della UE e altrove.
Si tratta di un modello corporativo, che si basa sull’idea di interessi comuni tra lavoro e capitale, invece che sulla lotta tra le classi – un modello che affonda le sue radici nell’ideologia dello stato conservatore cattolico e in quella del fascismo italiano.
Il movimento sindacale non è l’unico ad avvicinarsi ad un’errata concezione di un’Unione Europea progressista. In numerose organizzazioni è radicata la convinzione che consegnare ancora nuove competenze nazionali nelle mani della UE sarebbe in sé sinonimo di miglior gestione. Tutti hanno fiducia nelle belle promesse del progetto europeo (CEE/UE), sebbene esse non si siano ancora concretizzate. L’Unione Europea mette il suo naso dappertutto, ma è lontana dal costituire una garanzia che le cose miglioreranno. Per ciò che riguarda le politiche sociali ciò è doppiamente vero.
Nel quadro dei rapporti di forza attuali, sarebbe illusorio attendersi l’armonizzazione delle legislazioni che amministrano i sussidi sociali, le pensioni, un salario minimo, gli orari di lavoro o la situazione delle persone inabili, per malattia o invalidità di lavoro, un livellamento in alto, un allineamento sulle condizioni del miglior stato membro.
In realtà, la tendenza non è per la realizzazione di un’ “Europa sociale” ma essa va completamente nella direzione opposta, ciò che è tanto più evidente oggi che il modello economico e sociale dell’Unione Sovietica e dei suoi alleati non è più presente per opporre un’alternativa.
L’UE è all’origine di tutta una serie di documenti che riaffermano diritti che dovrebbero essere scontati, vale a dire:
Uguaglianza salariale tra uomini e donne;
Assenza di discriminazione razziale sul lavoro;
Ognuno dovrebbe avere una qualche forma di pensione;
I sindacati devono essere legali, e il loro ruolo in quanto interlocutori nei negoziati deve essere rispettato.
Questo genere di testi, tuttavia, non va mai oltre il limite del tollerabile. L’attuale crisi dell’euro ha accelerato un flagrante movimento di abbandono delle pretese di costruzione di un’ “Europa sociale”. Le priorità sociali dell’UE comprendono ormai la riduzione del costo del lavoro, la riduzione del numero di persone che hanno diritto ai sussidi di disoccupazione e un calo del numero dei pensionati.
I padroni non vogliono pagare la loro parte di quote per la Sicurezza sociale, come non vogliono che questi costi vengano assunti dallo stato, perché ciò vorrebbe dire che le imposte non potrebbero essere ridotte. Peraltro, vogliono vedere un mercato del lavoro più flessibile, in cui sarebbe più facile cacciare le persone e in cui i lavoratori avrebbero meno diritti mentre i loro impieghi sarebbero precari.
Quale sia l’esito dell’attuale crisi della zona euro, lo si comprende dal fatto che l’UE si è ormai avviata su una via neo-liberale. Ciò significa che la libera concorrenza regna, mentre le legislazioni nazionali che tutelano il lavoro e l’ambiente possono essere rimesse in discussione dalle direttive europee.
Il ruolo di organizzazioni come “la Tavola rotonda europea degli industriali” nell’elaborazione della politica della UE non è mai venuta completamente alla luce del sole. Questa organizzazione ha condotto la campagna per l’introduzione dell’euro. L’Europa del capitale esiste da lungo tempo, ma non c’è mai stata l’Europa sociale.

E non si tratta solo di un piccolo complotto fomentato da forze politiche di destra. Se si risale al marzo 2000, un summit di capi di governo si era svolto a Lisbona per discutere delle misure che avrebbero potuto essere adottate per rispondere alla rivendicazione dei sindacati per un’ “Europa sociale”. Tuttavia, le conclusioni dei primi ministri, in maggioranza socialdemocratici, per dieci di loro, furono lontane dall’indirizzarsi verso la settimana di 35 ore, la riduzione delle disuguaglianze di reddito, con sicurezza sociale, salario minimo, sviluppo dei sussidi sociali, creazione di impieghi nei servizi pubblici o abbassamento dell’età di pensionamento. Invece, venne lanciato un appello per massicce privatizzazioni con il disimpegno dello stato dalle sue funzioni sociali, come pure per lo stimolo della crescita economica tramite una riduzione delle tasse e un taglio alle spese collettive.
Questa lotta per la “competitività” a cui essi hanno aderito doveva essere finanziata dai tagli nei servizi pubblici e perseguirsi con la svendita di quello che restava delle imprese pubbliche.
La privatizzazione generalizzata fu messa all’ordine del giorno. Un obiettivo fondamentale che stava dietro a questa privatizzazione fu di spezzare la forza dei sindacati e di spingere verso il basso i salari trasformando ogni impiego in impiego precario.
Se li si sollecita un po’, i sostenitori dell’ “Europa sociale” si ostinano a dire che essa può essere compiuta solo se si salva l’euro. E per salvare l’euro, bisogna abbassare i salari, le tasse, e rimettere in discussione i diritti dei lavoratori e dell’ambiente. Questo tipo di crescita contribuisce meno a trovare una soluzione di quanto non possa fare una ripartizione più equa delle ricchezze che già possediamo. Dobbiamo esserne sorpresi? Gettiamo uno sguardo su qualcuno dei leaders di questa nuova “Europa sociale”.
Il nuovo presidente della Banca centrale europea (BCE) è Mario Draghi. Draghi è stato vicepresidente e direttore generale di Goldman Sachs International e membro del comitato direttivo di Goldman Sachs. E’ stato anche direttore esecutivo italiano della Banca Mondiale, governatore della Banca d’Italia, membro del comitato direttivo della BCE, membro del Consiglio d’ amministrazione della Banca dei regolamenti internazionali, membro del Consiglio d’amministrazione della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo e della Banca asiatica di sviluppo, presidente dell’Ufficio di stabilità finanziaria.
Il nuovo primo ministro italiano, Mario Monti – che è stato nominato e non eletto – era membro dell’Ufficio dei consiglieri internazionali di Goldman Sachs. E’ stato nominato alla Commissione europea, uno degli organi di governo dell’UE. Monti è presidente europeo della Commissione Trilaterale, un’organizzazione americana incaricata di difendere l’egemonia americana nel mondo. Egli è membro del gruppo Bilderberg e membro fondatore del gruppo Spinelli, un’organizzazione creata nel settembre 2010 per facilitare l’integrazione nella UE.
Così come un banchiere non eletto è stato installato come primo ministro in Italia, un banchiere non eletto è stato installato come primo ministro in Grecia. Il nuovo primo ministro nominato in Grecia, Lukas Papademos, era governatore della Banca di Grecia. Dal 2002 al 2010, è stato vicepresidente della BCE. Anche lui è membro della Commissione Trilaterale americana.
Il mito dell’ “Europa sociale” ha fornito uno slogan utile agli euro-fanatici di tutta Europa. Adesso che l’UE si mostra per quello che è, mentre impone una forma di asservimento economico a larghi strati della popolazione, è stato smascherato come la menzogna che non ha mai cessato di essere.