Riflessioni e auguri, da un operaio Fiat di Nola.


Quanta ipocrisia è in noi, come al solito ogni fine anno ci ritroviamo i soliti auguri, augurando il meglio a tutti e vogliamoci tutti bene, ma in realtà sono solo parole di falso buonismo.

Fra pochi giorni saranno 5 anni che sono fuori dalla Fiat di Pomigliano, e come me tanti altri compagni, tutti discriminati, per motivi sindacali, o perché dopo tanti anni di lavoro sulle catene, invalidi.

A noi si sommano le altre migliaia di lavoratori discriminati a Pomigliano, e le centinaia di migliaia in Italia, un paese diviso anche fra le stesse classi sociali.

Si diviso, come è possibile che siamo continuamente costretti a difendere le nostre posizioni, il lavoro, la dignità, il salario, e a difenderle con enormi sacrifici, mettendoci gli uni contro gli altri, una vera guerra fra poveri.

E’ possibile che il mio vicino, debba lavorare e io da anni in Cigs e fra non molto licenziato, è possibile che lui e tanti come lui che si ritengono fortunati vivono una vita serena e possono permettersi di regalare serenità e doni ai figli e tanti fra noi non possono neppure fare un Natale dignitoso, e veder sorridere i propri figli in particolar modo i piccini.

E questo perché?,

 semplicemente perché durante la vita lavorativa, si è sempre stati con la schiena diritta, non aver accettato passivamente le imposizioni, aver rivendicato i propri e altrui diritti, in alcuni casi denunciato le illegalità.

Oggi mi chiedo a cosa è valso ciò, è giusto che per le nostre idee siano i nostri cari a pagare il prezzo, eppure vedo che tanti compagni, che la pensavano come me, che hanno sempre fatto della dignità, del lavoro, dell’uguaglianza, della lotta ai soprusi, un metodo di vita, compagni con un cuore e un pensiero rosso fuoco, anno dopo anno sbiadire, perdere colore sempre di più, rosso, rosa, arancione, bianco, fino ad arrivare a punte di nero.

Questa continua metamorfosi di colori, ma che in realtà sono di pensiero e azioni, mi spingono ancora di più a chiedermi, “ma chi me lo ha fatto fare”, “sono sbagliato io o le mie idee”, 

quanti tormenti mi vengono alla mente e mi affliggono, finché, mio figlio accortosi del mio tormento me né chiede il motivo, ed ecco che come due amici gli confesso le mie pene,

lui mi guarda e dice Papà, tu mi hai insegnato ad essere uomo,  per me questo è tantissimo, ecco con poche parole è riuscito a scacciare tutti i dubbi e a far rinascere una speranza, sono sicurissimo che come me, mio figlio, la mia famiglia,
sono migliaia e migliaia, che condividono le nostre idee, nonostante vi sia una continua metamorfosi  di colori, vedo con piacere questo cambiamento, perché (come diceva Pasolini),

“che bandiera rossa ridiventi straccio, così che i poveri possano sventolarla”.

Cari compagni è con orgoglio che vi auguro Buon Anno, un anno pieno di lotte, inieme alle nostre famiglie, ai compagni e a chi non ha mai piegato la testa, pieno di dignità,

 Insieme possiamo farcela Buon 2013….

La traiettoria è stata deviata perché hanno urtato sull'edificio», ha detto il questore di Roma, Fulvio Della Rocca


Ridicola spiegazione data dal Questore di Roma per il bombardamento con razzi lacrimogeni effettuato da cecchini dal Ministero della Giustizia.

I razzi sarebbero stati sparati dal basso e rimbalzati sul muro! Ma forse si tratta di una arrogante negazione della verità documentata dai video e dalle foto di un dirigente dello Stato che si ritiene in diritto di alterare la verità.

 Di una prepotenza e basta.

L'atteggiamento assunto dalla Ministra che promette una accurata inchiesta è preludio di insabbiamento e di negazione della responsabilità.

Avrebbe dovuto stigmatizzare l'accaduto e questo non lo ha fatto! La reazione del PD è blanda e priva di nerbo.

Qualcuno ha detto che i cecchini dovevano avere i razzi già pronti in Ministero.
 Quindi c'è stata premeditazione, disegno criminoso di cecchinaggio e non casualità Inquietante la perizia dei carabinieri sui razzi sparati dal Ministero di Via Arenula.

Hanno sostenuto l'inverosimile tesi del Questore che i razzi sarebbero stati sparati dall'esterno!

Se cosi fosse si dovrebbero vedere le scie ascendenti dei razzi il momento del loro contatto con il cornicione e della frantumazione e poi la scia discendente verso il basso,.

 Invece si vedono i razzi uscire chiaramente dalle finestre ed avviarsi verso il basso con una scia soltanto discendente,.

 Insomma carabinieri e polizia fanno muro e sostengono la stessa inverosimile verità.
Noi: lavoratori, studenti, manifestanti, restiamo convinti che si è trattato di cecchinaggio dai palazzi del potere.

Una sorta di messaggio che è stato fatto all'Italia da un governo che risponde solo con la violenza alle rivendicazioni delle persone. 

Sergio Marchionne e la truffa di “Fabbrica Italia”



Come annunciato già da diversi mesi, il 30 ottobre, in occasione della pubblicazione dei risultati realizzati nell’ultimo trimestre, Fiat ha presentato anche il piano industriale per il triennio 2013-2016.

Sono bastate poche slide per mettere la parola fine al progetto Fabbrica Italia, presentato appena due anni fa in pompa magna e oggetto di una propaganda tanto invasiva da ricordare forme comunicative tipiche del ventennio (chi non ricorda il famigerato spot televisivo del padre che parla al figlio neonato?).

Nel piano industriale non vi è traccia dei 20 miliardi di investimenti per gli stabilimenti italiani, delle 6 milioni di autovetture previste per il 2014;  ne sono state prodotte: nel 2012, per esattezza
  •  Mirafiori 44000, 
  • Melfi 148600, 
  • Pomigliano 119200, 
  • cassino 102000,
  •  per un totale di 413800 vetture; 

nel 2013 ne sono previste,
  • per Mirafiori  29700 (prevista solo la Mito), 
  • Melfi 175500, 
  • Pomigliano 177500 ( con la 4x4), 
  • cassino 111700,
  •  per un totale di 476400, neppure la metà di quando annunciato..

Attorno al progetto Fabbrica Italia si sviluppò la vicenda relativa al nuovo contratto di Pomigliano poi esteso agli altri impianti, la Fiat, con fare mafioso degno de Il Padrino, faceva ai lavoratori una “proposta che non potevano rifiutare”: voi accettate di farvi iper-sfuttare e di rinunciare ai più basilari diritti sindacali ed io vi assicuro la piena occupazione.

Lo spettro della chiusura degli stabilimenti ha fatto in modo che il ricatto passasse, nonostante la fiera resistenza di molti operai che, oltre a rifiutare un contratto che andava a peggiorare ulteriormente le proprie condizioni di lavoro, esprimevano non poche perplessità sul fatto che anche alle nuove condizioni la Fiat fosse capace di mantenere i livelli occupazionali.

Oggi tutti, compresi coloro che sostennero Marchionne - sia nel mondo sindacale che in quello politico - senza se e senza ma, sono costretti ad ammettere che quegli operai avevano ragione e che il nodo della sovraccapacità  produttiva è tutt’altro che risolto.

In realtà non bisognava aspettare la presentazione del piano industriale per capire che Marchionne stava vendendo fumo e che il progetto “Fabbrica Italia” non era altro che una truffa ben congegnata. Fin da subito, a Pomigliano, con l’inizio della produzione della nuova Panda ci si è accorti che qualcosa non quadrava.

Infatti “Fabbrica Italia Pomigliano” è stata progettata per produrre a pieno regime 1.050 auto al giorno e la NewCo, una volta riassunti i 1.800 operai, è arrivata a produrre 900 vetture al giorno, come si può pensare di riassorbire gli altri 2.400 lavoratori (attualmente in cassa integrazione) se bisogna colmare un gap di solo 150 auto?

 Tutto questo senza contare l’aggravante data dal fatto che la Panda non ha avuto un buon riscontro sul mercato e pertanto già da alcuni mesi a Pomigliano si è fatto ricorso agli ammortizzatori sociali.

Il rifiuto da parte della dirigenza a fornire notizie sui modelli in programma e sul piano degli investimenti ha destato, in questi anni, non pochi sospetti anche tra gli stessi operatori finanziari, in particolare riguardo all’alta liquidità di cui disporrebbe la multinazionale torinese su cui è in atto un indagine della Consob.

In un settore come quello automobilistico, dove mediamente servono quattro anni per portare un’auto sul mercato, era materialmente impossibile rispettare i programmi annunciati da Marchionne nel 2010 (6 milioni di vetture prodotte e 51 modelli per il 2014) senza che fossero effettuati da subito ingentissimi investimenti.

Dopo avere sbandierato il progetto “Fabbrica Italia” come “la svolta” per l’economia del nostro Paese, come l’uovo di Colombo capace di far contenti tutti (tutti i padroni, s’intende!), le dichiarazioni del 13 settembre scorso risultano a dir poco sbalorditive, Marchionne dice testualmente:

Da quando Fabbrica Italia è stata annunciata nell'aprile 2010 le cose sono profondamente cambiate. 
Il mercato dell'auto in Europa è entrato in una grave crisi e quello italiano è crollato ai livelli degli anni settanta. È quindi impossibile fare riferimento ad un progetto nato due anni e mezzo fa. È necessario infatti che il piano prodotti e i relativi investimenti siano oggetto di costante revisione per adeguarli all'andamento dei mercati...

o per diffondere una nota come quella del 27 ottobre del 2011 in cui la Fiat affermava che non avrebbe più utilizzato la dizione “Fabbrica Italia”.

La verità è che il progetto “Fabbrica Italia” non è mai esistito.

Si è trattato esclusivamente di un’abile manovra attraverso la quale Fiat ha reperito risorse per procedere nel percorso, non ancora completato, di acquisizione di Chrysler.

Marchionne ha venduto sui mercati finanziari la possibilità di sfruttare in futuro i lavoratori in maniera ancora più intensiva, di renderli ancora più ricattabili e privi di diritti, l’opportunità di deteriorare ulteriormente delle loro condizioni di lavoro.

Queste condizioni sono però solo potenziali, sono armi messe a disposizione dei padroni e nulla più, in quanto di fatto non esiste nessun programma mirato alla saturazione degli attuali impianti presenti in Italia, e moltissimi lavoratori resteranno semplicemente a casa, senza avere l’occasione di “godere” del nuovo contratto.

E attraverso la costituzione di società fantasma, (scatole cinesi), è riuscito a selezionare in modo discriminatorio quei lavoratori cosiddetti sgraditi e a lasciarli fuori dall’azienda, raggirando le leggi previste per la Riduzione di personale - art. 24 legge 223/91, tutto ciò con la complicità di forze politiche e sindacali…

Oggi, gli stessi politici che fino a pochi mesi fa facevano a gara per accompagnare l’A.d. di Fiat ora prendono le distanze preoccupati delle possibili ripercussioni elettorali e lo stesso mondo dell’imprenditoria si dissocia temendo che le scelte del colosso torinese possano fungere da detonatore per il malessere sociale, aprendo così le porte ad una nuova stagione di lotte.

Va letto in quest’ottica l’annuncio fatto all’interno del piano industriale di non chiudere nessun impianto in Italia, una scelta che non trova giustificazione dal punto di vista delle strategie aziendali e che, se guardiamo al crescente indebitamento e all’andamento del titolo Fiat, negli ultimi giorni, è costata non poco in termini economici.

In parole semplici Fiat pur perdendo un mare di soldi è costretta per ragioni di carattere politico a mantenere in vita una struttura produttiva sovradimensionata rispetto alle propria necessità con il governo che dal canto suo è impegnato a reperire risorse per concedere la cassa-integrazione in deroga.

Una strategia che il padronato nostrano sta attuando in molteplici occasioni ed in particolare in quei settori - e in quelle vertenze - come Alcoa e Ilva che per numeri, livello di sindacalizzazione e combattività degli operai rappresentano delle vere e proprie mine vaganti. Mine che vanno disinnescate spostando la risoluzione delle vertenze più in là nel tempo, a quando le condizioni politiche ed economiche siano più congeniali.

Ciò dimostra come queste vertenze abbiano in sè una valenza immediatamente politica.
Oggi per noi non si tratta, come fa qualcuno, di giocare a fare l’amministratore delegato e di spiegare a Marchionne o ai manager Alcoa come fare un piano industriale, ma di decidere coerentemente da che parte stare.

È questa probabilmente una delle sfide più grandi che ci attendono da qui ai prossimi anni: trasformare quelle che sono apparentemente solo semplici vertenze in elementi di politicizzazione reale che elevino il livello della coscienza di classe e ci consentano di rappresentare realmente gli interessi dei lavoratori.

I siciliani bocciano questa politica


La maggioranza assoluta del popolo siciliano non si è recata alle urne schifata dalla politica fatta da oligarchi politicanti arroganti e magna magna.
Nel cupo scenario di una crisi sociale provocata dalla borghesia italiana per impoverire i lavoratori ed il ceto medio il fallimento della Regione è diventato più evidente.
Come tutti dichiaravano, le elezioni i
n Sicilia sono un referendum sul tipo di politica, mentre i partiti di dx e sx, sapendo dello scempio che hanno commesso in questi anni proseguendo da una parte sul malaffare e dall’altra promuovendo sudditanza ai poteri forti e alla finanza, hanno pensato di correre ai ripari con una lotta interna al rinnovamento.
Quindi non si attaccano le scelte politiche, ma si cerca semplicemente un cambio generazionale, come propone Renzi nel centrosx e la Santanche nel centrodx, come se la sfiducia fosse data al condottiero e non al tipo di politica.
Il lombardismo in sicilia, ma è prassi ovunque, la degenerazione della politica ha portato alle estreme conseguenze del fallimento morale e finanziario dell’italia, con sperperi del denaro pubblico, dilapidato da voraci consorterie politiche che hanno scelto la politica come business.
La politica nella sua accezione alta è morta da un pezzo e la pubblica amministrazione è oggetto di un assalto di violenti alla cassa.
Anche dentro i partiti i candidati onesti e poveri hanno dovuto soccombere alla aggressività ed alla prepotenza dei più forti e sostenuti da fameliche orde di aspiranti al profitto.
Ora la parola d'ordine dei mass-media è minimizzare la diserzione delle urne dei siciliani.
Se i grillini hanno avuto successo da come sembra è perché parlano una politica diversa fuori dalla triade e dalla morsa velenosa imposta dalla Germania.
La sx vera non quella opportunista, se vuole sopravvivere deve finalmente schierarsi,
• o con le politiche imposte dall’Europa,
• o scegliere di governare il proprio paese con politiche sociali, che proteggono l’Italia dalla speculazione finanziaria, dalla possibilità che grosse aziende di carattere nazionale possano essere esternalizzate, licenziando migliaia di lavoratori, “se la Fiat delocalizza, lo stato deve avere il coraggio di nazionalizzarla”, mentre con le politiche europeiste ciò è impossibile, e saremo costretti a ridurre sempre più lo stato sociale, assistenza previdenza.
I siciliani comunque hanno capito una cosa essenziale, Non c'è alcuna differenza tra centro-destra e centro-sinistra. Entrambi collocano i loro uomini in società miste che sono quasi tutte in rosso e sono incapaci di fare alcunché, pensano solo alla spartizione del potere.

Sinistra, svegliati: con la crisi della globalizzazione la dottrina del libero scambio è superata


Intervista di Marco Berlinguer a Emiliano Brancaccio, docente di economia e politica internazionale...
(Pubblico, 20 ottobre 2012)

La missione che si è dato Emiliano Brancaccio – brillante economista napoletano – è quantomai difficile. Nientedimeno che rompere un tabù: quello che si è creato attorno alla dottrina del libero commercio mondiale. La sua tesi è che con la crisi della globalizzazione capitalistica, nei fatti nuove forme di protezionismo e di controllo politico stanno crescendo. E che quella dottrina è in crisi e ormai superata. Ed è tempo che la sinistra se ne accorga, se non vuole che le proposte di limitazione dei movimenti di capitali e di merci - che incontrano crescenti consensi un po’ ovunque, anche in Italia - siano cavalcate soltanto da forze populistiche e nazionaliste.

Il protezionismo sta tornando di moda?
Tra il 2008 e il 2012 la Commissione europea ha registrato 534 nuove misure protezionistiche. Non solo l’Argentina, ma anche colossi come Cina, India, Brasile e Stati Uniti hanno introdotto restrizioni. La stessa Russia ha posto in essere 80 nuove misure protezionistiche, il che la dice lunga sul modo in cui intenderà gestire la recente adesione al WTO, l’organizzazione mondiale del commercio. L’unica potenza che ancora resiste alla tentazione di introdurre controlli sui movimenti di capitali e di merci è proprio l’Unione europea. Dietro ci sono gli interessi del paese più forte, la Germania, che dal libero scambio trae grandi vantaggi. Tuttavia, man mano che la crisi avanza, anche in Europa e in Italia aumentano i consensi verso misure di controllo dei commerci, di limitazione delle acquisizioni estere e di ripristino della sovranità nazionale sulla moneta. E’ un’illusione pensare di contrastare quest’onda con la solita vuota retorica europeista.

In effetti i segnali di protezionismo non mancano. Lo stesso Marchionne, in qualità di presidente dell’associazione europea dei costruttori automobilistici, ha criticato l’apertura indiscriminata alle importazioni di autoveicoli prodotti in Asia.
Non solo: Marchionne ha pure chiesto alla Commissione europea di governare i tagli di capacità produttiva delle case automobilistiche europee, in modo da lasciare invariate le quote di mercato: una vera e propria pianificazione pubblica europea dei volumi di produzione. E’ una posizione sensata che tuttavia apre una contraddizione, visto che al tempo stesso Marchionne rivendica piena libertà di trasferimento del capitale di Fiat all’estero ed esige dai lavoratori una totale sottomissione alle leggi del mercato. E’ l’ennesimo sintomo di crisi del liberismo e dei suoi ideologi, che da un lato si arrampicano sugli specchi per giustificare i massicci aiuti pubblici ai capitali privati, e dall’altro continuano a pretendere di avere mani libere nello scontro con i lavoratori.

E la sinistra, dice lei, risalta per il suo silenzio.
Per troppi anni ha subito il condizionamento ideologico del liberismo, dell’idea che la globalizzazione capitalistica fosse un dato ineluttabile e in fin dei conti benefico. Quando Fiat, o i vertici di Alcoa o la famiglia Riva - che hanno ricevuto varie forme di sostegno statale - hanno minacciato di abbandonare l’Italia e investire all’estero, Berlusconi e Monti hanno dato loro man forte sostenendo che un’impresa privata deve esser lasciata libera di trasferirsi dove meglio crede. E non mi risulta che da sinistra si siano levate molte critiche verso questa indiscriminata libertà di spostamento dei capitali. Oppure, quando scopriamo che gli impianti che producono carbone e alluminio in Sardegna sono scarsamente efficienti anche perché risultano in larga misura sottoutilizzati, non mi pare che da sinistra siano giunte proposte per tentare di ridurre un po’ le enormi quantità di questi prodotti che importiamo dalla Cina e dalla Germania. Se si lasciano queste tematiche ai soli movimenti nazionalpopulisti si commette un grave errore di prospettiva.

Quello che molti affermano è che il protezionismo provoca danni economici, pericolosi nazionalismi e persino guerre.
E’ un convincimento tanto diffuso quanto privo di evidenze. Il premio Nobel per l’Economia Paul Samuelson, che non era un protezionista, ci ha spiegato che in presenza di disoccupazione il libero scambio crea problemi, non vantaggi. E l’economista di Harvard Dani Rodrik ci ricorda che negli anni Cinquanta e Sessanta sussistevano numerosi controlli sui movimenti di capitali e di merci, eppure lo sviluppo, l’occupazione e la distribuzione del reddito erano molto migliori di oggi, anche perché quei controlli permettevano ai singoli stati di perseguire obiettivi interni, occupazionali e distributivi. Si potrebbe anche ricordare che la massima liberalizzazione dei movimenti internazionali dei capitali fu raggiunta esattamente alla vigilia della prima guerra mondiale. E’ dunque proprio un incondizionato liberoscambismo, soprattutto in tempi di gravissima crisi economica, che rischia di alimentare le peggiori pulsioni nazionaliste.

Lei arriva anche ad argomentare che una minaccia “neo-protezionista” da parte dei paesi del Sud Europa potrebbe contribuire a salvare l’unità europea. Sembra un paradosso. Ci spiega meglio?
L’Europa può ritrovare coesione interna solo se mette un freno alla competizione salariale al ribasso e attiva un “motore interno” dello sviluppo economico e sociale. Per adesso, tuttavia, ci stiamo muovendo in direzione contraria. La Germania ha imposto ai paesi periferici della zona euro una ricetta a base di depressione, disoccupazione e fallimenti aziendali. La stessa Banca centrale europea segue questa linea: è disposta a difendere i paesi periferici dalla speculazione solo a condizione che questi comprimano ulteriormente la spesa pubblica e il costo del lavoro e si dispongano a vendere i capitali nazionali, incluse le banche. Questa violenta ristrutturazione a guida tedesca trasformerà vaste aree del Sud Europa in deserti produttivi, destinati solo a fornire manodopera a buon mercato alle aree più forti. I gruppi d’interesse prevalenti in Germania sanno che questi processi potrebbero scatenare tensioni tali da indurre i paesi del Sud ad abbandonare l’euro, ma questa eventualità non li spaventa. L’unica vera paura dei tedeschi è che con la moneta unica salti anche il mercato unico europeo, sul quale si fonda la loro egemonia: cioè temono che i paesi del Sud introducano limiti alla libera circolazione dei capitali e delle merci in Europa. In Francia si discute da tempo di opzioni simili, ma il governo socialista non sembra disposto a esplicitare una minaccia protezionista. In Italia, per evitare tentazioni, abbiamo addirittura messo un irriducibile liberoscambista ai vertici del governo. La crisi però avanza, i nodi verranno al pettine. Se la sinistra insiste con il suo liberoscambismo acritico, a scioglierli verranno chiamate forze completamente estranee alla tradizione del movimento dei lavoratori.